19. The need for hope

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Intreccio le dita intorno alla circonferenza della tazza di caffè latte che questa mattina, prima di cominciare a lavorare, ho deciso di prepararmi. Oggi, in via del tutto eccezionale, non sono andata a scuola perché qui avevano bisogno di me, visto che alcuni dipendenti si sono ammalati, lasciando un turno quasi del tutto scoperto. Sono arrivata appositamente prima dell'orario che mi era stato comunicato, in modo da potermi godere alcuni attimi di pace, prima del caos.

Sì, è proprio così, durante il giorno, a qualsiasi ora, questo posto si riempie di gente che si ammassa davanti al bancone o che si limita a sedersi ad un tavolo, aspettando che qualcuno venga a prendere l'ordine.

Per non parlare poi delle persone che ogni singolo giorno chiedono di affittare una stanza per una notte o due e di quelle che si lamentano perché non si sentono a proprio agio in una come quella assegnatagli o perché le tende spesse fanno entrare poca luce.

Più di una volta il capo, che poi ho scoperto essere una donna sulla cinquantina, sempre vestita di tutto punto ma più perfida di quello che sembra, ha dovuto richiamare qualcuno di noi perché, entrando in una stanza ha notato che alcune cose non erano perfettamente pulite o che mancava qualcosa. Richiamare in realtà è poco: credo che Miranda, colei che doveva preoccuparsi di sistemare le camere da letto, non sia stata licenziata per un pelo.

Fortunatamente però riordinare e rassettare le camere non mi compete, il mio lavoro, al momento, è quello di prendere le ordinazioni e, in casi estremi, preparare caffè, cappuccini o altro. Non è di certo il lavoro dei miei sogni ma ne ho bisogno, per questo sono felice di averlo ottenuto.

Mi porto alle labbra il bordo della tazza, sussultando appena quando la mia bocca viene a contatto con quel liquido bollente. Al tatto, non lo facevo così caldo. Prendo a soffiare lievemente su di esso, giusto il tempo di rendermi conto che forse dovrei sbrigarmi perché se il capo mi vedesse qui seduta a sorseggiare un cappuccino, invece di cominciare a prepararmi per l'inizio del turno, di certo farebbe sì che tutti gli sforzi compiuti fino a questo momento per ottenere un po' di indipendenza, volassero via come foglie al vento.

E io non ho proprio voglia di sfidarla, ad essere sincera.

Velocemente e in un sorso, risucchio il contenuto della tazza per poi correre a ripulire e a cancellare ogni traccia di questi momenti, deridendomi leggermente per la serietà con cui sto prendendo questa faccenda. Lo so, sono paranoica, ma è meglio non correre rischi.

In poco più di qualche minuto è tutto al suo posto e io non potrei essere più soddisfatta di così, se non fosse per il fatto che sia la mia lingua, sia il mio palato, sono lievemente ustionati.

La mia sicurezza però vacilla nel momento in cui mi rendo conto di aver fatto giusto in tempo a coprire il mio piccolo peccato perché, pochi minuti dopo, mi ritrovo a rifugiarmi dietro al bancone, alla vista di quella burbera signora dalla chioma bionda che, fin troppo lentamente, fa il suo trionfale ingresso nella sala.

Me lo sento che in questo momento sta godendo, consapevole della paura che ci incute. Proprio perché sa che il suo sguardo è capace di scioglierci in un istante, come ghiaccioli al sole, non si affretta più di tanto a raggiungere la sua meta. Sempre che ne esista una vera.

Scuoto il capo sonoramente e Sam, una mia collega, non si lascia sfuggire questo mio gesto.
<<Stai tranquilla,>> borbotta <<svolgi il tuo lavoro con precisione e non avrai problemi, con lei. È perfida ma è anche giusta.>> Sussurra al mio orecchio, fingendo di star pulendo la superficie del bancone.

Giusta.
Proprio come lo è quasi stata con Miranda, no?
No giusto per sapere, perché se è così mi fido, mi fido ciecamente proprio.

Fino alle estremità della TerraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora