17. Strength to forgive

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<<Ti prego, rispondimi!>> Lo dissi quasi piangendo, parlai, quel giorno, come se avesse davvero senso continuare a credere che quello fosse solo un altro dei suoi strambi e inutili scherzi, volti semplicemente al divertimento e alla spensieratezza. Ma ormai lo avevo capito. Non c'era nulla di rassicurante nel suo viso pallido, neanche una nota di sarcasmo nei suoi occhi gelidi, nessun motivo per cui dovessi continuare a credere che fosse tutto frutto della mia immaginazione, che quello fosse solo un orribile scherzo della mia mente. Non aveva più senso fingere e questo lei lo aveva capito. Non sarebbe servito a nulla continuare a mentire, quando sapeva che prima o poi la verità sarebbe venuta fuori.
In un modo o nell'altro. E fu solo in quel momento che tornarono alla mia mente tanti di quei ricordi che col tempo mi ero ritrovata ad archiviare, tante di quelle cose che fino a quel giorno avevo creduto solo ignobili presentimenti e che avevo rigettato spudoratamente, definendomi una paranoica. E mi ricordai del giorno in cui, mesi prima, alcuni ragazzi l'avevano spinta giù dalle scale all'uscita della scuola, mi ricordai delle sue ginocchia sanguinanti che non volle farsi toccare neanche dalle persone preposte in infermeria. Pensai e ripensai a tutti quei tasselli che, dopo mesi e mesi, cominciavano ad incastrarsi l'uno all'altro, a tutti quei particolari che, finalmente o forse purtroppo, iniziavano a dare un senso all'enorme caos che si era creato in tutto quel tempo.

Avevo paura, eccome se ne avevo.

Paura di perdere anche lei, paura di non essere in grado di darle il sostegno di cui necessitava per sopportare tutto quel dolore. Avevo paura di non farcela, avevo paura di cedere, ancora una volta. Ero troppo piccola per sopportare tutto quello che mi stava accadendo, troppo giovane per soffrire così tanto.
Eppure Dio lo aveva permesso, di nuovo. Non ne capivo il motivo ma era la verità. E ricordo che in quel momento, nel preciso istante in cui pronunciò il nome di quella malattia, sentii bruciare il cuore dentro il mio petto e con esso tutti i miei organi vitali. Credetti quasi di svenire e mi resi conto che se non fosse stato per la sedia che sosteneva il mio esile corpo, le mie gambe avrebbero ceduto, lasciandomi cadere, in un attimo, nel fondo della mia disperazione. Ma lì, c'ero finita comunque, a prescindere dal fatto che ci fosse qualcosa a sostenermi. E ricordo che piansi, piansi di nuovo, lasciai scivolare sul mio viso decine di lacrime amare, che parevano bruciare al contatto con la mia pelle già inumidita da quelle versate poco prima. Non so spiegare le emozioni che provai in quel momento, non fui in grado di gestirle e ora non sono in grado di descriverle.
A stupirmi maggiormente fu proprio lei: i suoi occhi erano lucidi ma il suo volto pallido era del tutto impassibile.
Compresi solo in quel momento che la realtà della sua malattia non l'aveva scalfita minimamente, solo in quell'istante capii che lei aveva già digerito quel dolore e che piano piano lo stava metabolizzando. Tuttavia mi chiesi come fosse riuscita a fingere in quella maniera, mi domandai come potesse trattenere dentro di sé tanto dolore, senza far trapelare in nessun modo alcuno dei suoi sentimenti. La invidiai, per un momento, invidiai il suo animo mansueto, il suo altruismo. Capii che fino a quel momento lei aveva scelto di porre il mio dolore al di sopra del suo. Si era abbassata a soffrire in silenzio, per far sì che io sperimentassi tutto il suo affetto, per far sì che quel fardello che si portava sulle spalle non gravasse anche su di me, oltre che sulla sua famiglia. E sono convinta che se sua madre e suo fratello non fossero stati lì, quel giorno, probabilmente neanche loro avrebbero saputo della sua malattia. Lei sarebbe rimasta in silenzio e in silenzio avrebbe aspettato il giorno in cui avrebbe smesso di soffrire. Per sempre. Quella sera le chiesi perdono, perdono per essere stata così egoista, per aver pensato che Dio avesse in serbo solo per me tutti questi dolori. E invece, mentre io non lo vedevo, mentre la mia mente era concentrata solo ed esclusivamente sulla mia sofferenza, la mia migliore amica stava sopportando un dolore atroce totalmente da sola, o quasi. Sapevo che Dio sarebbe stato sempre con lei ma in quel momento anche io sarei dovuta essere al suo fianco, per incoraggiarla proprio come lei aveva fatto con me, altre volte. Ma ero troppo impegnata a guardare a me stessa, a quelli che erano i miei problemi. Quella sera mi strinsi dolcemente a lei, lasciai che il suo profumo invadesse le mie narici, sperai con tutto il cuore che mi perdonasse, perché non desideravo altro. Volevo vederla felice, anche se da quando aveva scelto di stare dalla parte di Dio, non aveva mai dimostrato il contrario. Ma soprattutto desideravo che capisse che da quel giorno sarei stata sempre al suo fianco, avrei fatto in modo di farmi perdonare, l'avrei aiutata a sopportare il suo dolore. Non tanto quello fisico, perché in quel campo non potevo fare molto, se non nulla, ma sarei stata con lei affinché sopportasse e pian pian superasse quello più grande. L'avrei aiutata a sopportare il dolore di essersi trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato. Sarei stata vicino a lei affinché sopportasse la sofferenza, che fino a quel momento si era tenuta dentro, per essere stata il giocattolo di un uomo malato, non solo fisicamente ma soprattutto interiormente. Le avrei dato mille ragioni affinché non si sentisse in colpa per non essere stata capace di non farsi toccare da quell'animale, lì, in Africa, dove tutto era permesso. Le avrei dato mille motivi affinché non stesse ancora più male, sapendo di non essere stata capace di scappare da lui e dal suo pervertimento. Avrei provato a far sì che il dolore per non essere riuscita a resistergli, che l'angoscia che provava per aver permesso a quell'animale di farle del male, portandole via ciò che solo un marito avrebbe dovuto toglierle e soprattutto non in quel modo, piano piano si cicatrizzasse. Ci avrei provato, a tutti i costi. E Dio mi avrebbe dato la forza per starle accanto. E mentre la sofferenza continuava a scorrere sul suo viso, mentre il dolore per il ricordo di quei momenti terribili che riaffioravano dentro di lei, continuava a deturparle l'animo, io ero lì quella volta e non avrei mai più permesso a niente e nessuno di impedirmi di sostenerla. Ne aveva bisogno e se lo meritava. Era poco quello che potevo fare ma era comunque meglio di niente. Quella sera mi promisi che un giorno avrei fatto qualcosa, qualcosa che forse ancora non immaginavo, ma lo avrei fatto, per lei, per la mia migliore amica, ma anche per tutte quelle persone che, come lei, erano costrette a sopportare tutto quel dolore ed erano destinate a morire nel fiore dei loro anni.

Fino alle estremità della TerraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora