01. 10. 117dF - 02:38pm

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Lydia odiava gli ospedali.

Una parte di lei riconduceva quella sensazione primordiale al breve periodo in cui i suoi genitori, più infastiditi che preoccupati, erano stati costretti a ricoverarla per una tonsillite; non era stata l'operazione a spaventarla, né il dolore provato nei giorni successivi, ma l'essere stata abbandonata quando era ancora una bambina di cinque anni che aveva paura dei mostri nascosti sotto al letto. In fondo all'animo, però, sapeva bene che un simile odio era solo la facciata usata per nascondere il terrore che provava all'idea di rimanere sola.

Forse era proprio quella la causa per cui si era quasi messa a urlare di gioia quando Zack era tornato a trovarla il giorno dopo il suo risveglio, sorprendendola poco prima della cena. Si era sentita sollevata davanti alla vista di un volto amico e, una parola alla volta, aveva ricostruito ciò che era accaduto nel secolo durante il quale era rimasta ibernata; il lento processo, talvolta interrotto a causa di nuove lacrime impossibili da contenere, era andato avanti giorno dopo giorno, l'implacabile oggettività dell'uomo che aveva qualcosa di confortante. Meglio avere dei punti fermi, piuttosto che continuare a sbandare nella nebbia.

Una sera, colta da un pensiero improvviso, gli aveva chiesto se sapesse dove fossero i suoi bagagli.

"Bagagli?" aveva replicato lui, aggrottando le sopracciglia. "Quali bagagli? Al museo non c'è nulla."

Lei si era lasciata sfuggire un sospiro e la mano era corsa alle orecchie forate prive di orecchini. "Non sono partita a mani vuote" gli aveva detto. "Una piccola parte di me sperava fosse rimasto qualcosa di ciò che c'era prima."

Zack aveva annuito e la conversazione si era conclusa lì. Il giorno successivo, però, le aveva portato dei vestiti caldi, un paio di scarponi e un piccolo gioco in legno, un rompicapo della sua infanzia su cui aveva trascorso ore; le aveva spiegato come smontarlo, per poi invitarla a trovare un modo per ricomporre i pezzi dai colori sbiaditi che le erano rimasti tra le dita. Lydia non aveva osato dirglielo, ma quei frammenti le mostravano quanto lei stessa si sentisse rotta, cosa che le aveva impedito di riflettere a lungo sulla possibile soluzione.

"Eppure non dovrebbe essere difficile" pensò, tastando la borsa datole da un'infermiera dove aveva infilato i suoi scarsi averi. Dopo essersi accertata che il gioco fosse al sicuro, prese un profondo respiro e uscì dalla stanza, seguendo il piccolo uomo che le aveva firmato le dimissioni giusto un paio di ore prima. Si era presentato nella camera mentre Lydia stava pranzando con una zuppa e pezzetti di pane. La comparsa l'aveva lasciata interdetta, soprattutto perché l'uomo le era parso disgustato fino all'inverosimile: il piccolo naso arricciato, le labbra sottili strette, la mascella contratta, gli occhi assottigliati dietro un paio di spesse lenti rettangolari... Anche mentre si era avvicinato a lei la sensazione non aveva fatto altro che acuirsi, vista la postura rigida e la mano fredda che le aveva teso nel presentarsi come il segretario del sindaco; senza perdere tempo, le aveva annunciato con voce stridula che il capo della comunità desiderava vederla. Perché non fosse giunto lui stesso in ospedale era incomprensibile alla ragazza, ma, nonostante i dubbi che avrebbero dovuto farla tentennare, aveva subito afferrato la possibilità di fuggire.

"E comunque non sarei potuta rimanere qui dentro per sempre" si disse, stringendosi meglio nel cappotto troppo grande che le avevano offerto per coprirsi. Oltretutto, dopo aver passato i giorni precedenti rinchiusa come un'appestata, non aspettava altro che vedere l'esterno; già camminando lungo il corridoio lanciava occhiate fuori dalle finestre, incantata dal manto bianco che copriva il paesaggio esterno, la luce del sole che gli dava una sfumatura cristallina.

"Ma cos'è?" chiese al segretario, di un paio di passi avanti a lei.

"Neve. E si muova: siamo già in ritardo."

Gli esuli delle stelleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora