・ᴘʀᴏʟᴏɢᴏ・

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Il sole sorgeva lentamente in quella mattina di caldo giugno.

Il cielo ceruleo e terso vedeva come protagonisti gli uccellini che leggiadri danzavano seguendo la corrente del vento cinguettando come tenori.

La brezza leggera e fresca faceva dondolare le chiome folte e in fiore degli alberi che con il frusciare delle foglie creava una melodia ipnotica.

L'acqua sgorgava dalla fontana esattamente dalla bocca di un maestoso demone alato - piegato su se stesso come se fosse in procinto di morire - che con la sua imponenza statuaria dominava la scena su quel bellissimo giardino ove i roseti spiccavano in mezzo a Calibrachoa, Gazania e Hibiscus.

Era un'esplosione di colori che andavano dal più tenue come quello dei lillà a quello più sgargiante, come quello della calendula.

Ma nonostante ci fosse tutto quel colore e tutta quella vita al di fuori, dentro quell'imponente palazzo ottocentesco l'aria era cupa.

Le fitte tende di un rosso scuro coprivano la luce del sole e le candele che illuminavano l'interno gli conferivano un'aria spettrale, triste... vuota.

In una delle stanze superiori, sotto un enorme quadro dove era ritratto il padrone di casa, si stagliava un pianoforte a coda.

Era di un bianco perla con rifiniture dorate.

Sul coperchio superiore giaceva sperduto un bicchiere contenente liquido ambrato che pareva essere Bourbon.

Le dita lunghe e affusolate dell'uomo, si muovevano con rinnovata grazia e sicurezza su quei tasti che si alternavano da bianchi a neri.

La melodia era triste.

Dolorosa.

Sofferente.

Angosciante.

Straziante.

Quella luttuosa melodia che con i suoi crescendo e diminuendo rompeva il silenzio opprimente di quel palazzo ottocentesco.

Quello strumento era l'unica cosa che conforto gli dava; l'unico su cui sfogarsi, su cui far cadere le sue nefande scelte.

La sua anima immortale macchiata di scelleratezza... empietà, la sofferenza che non aveva mai provato prima gli si riversava addosso come una cascata di lava ghiacciata sulla pelle.

Impetuose le dita premevano su di quei delicati bianchi tasti che gli ricordavano troppo la sua pelle lattea e quelli neri il colore dei suoi boccoli d'ebano.

Sospirò esausto e smise di suonare.

Prese in mano il bicchiere di bourbon e lo bevve tutto d'un fiato.

"Come se servisse a farmi ubriacare", pensò scuotendo la testa. "Cosa farei per farlo", si disse poi passandosi una mano tra i capelli neri come la pece.

La sua pelle cadaverica in quegli anni era divenuta sempre più fredda, i suoi occhi perdevano brillantezza e quel rosso vermiglio diventava sempre più spento, proprio come il colore cupo delle tende.

E il suo cuore se batteva lentamente da sembrare fermo, adesso lo era.

Immobile e tenuto stretto in una morsa di ferro.

Non voleva!

Non voleva sentirsi in quel modo!

I sensi di colpa lo stavano divorando da diciassette anni!

Tristezza... solitudine.

Erano quelle le uniche parole che lo accompagnavano durante le ore illuminate dal sole.

The Mark of the BeastDove le storie prendono vita. Scoprilo ora