XXII. Midas

1.4K 64 292
                                    


N E B E L

XXII.

Midas



Verena era seduta sul bordo del divano, con la schiena dritta e i palmi appoggiati alle ginocchia. Fissava il vuoto come se ci fosse qualcuno davanti a lei a interrogarla.

«È tornata? Diamine!»

La voce di Richard, sovrapposta alle casse rintronanti del Musikant, si era fatta più acuta al di là della cornetta. Sonne la stava stringendo fortissimo, temeva gli sarebbe caduta per quanto gli stavano sudando le mani. Continuava a guardare Verena, poco lontano da lui e dal tavolino su cui era piazzato il telefono.

«Sonne, mi senti?»

«Sì, è qui con me» rispose. Ma non le tolse gli occhi di dosso. Non riusciva a farlo. A stento trovava la voce, perché la visione di lei lo ammutoliva. «Mi sembra un po' in stato di shock.»

Verena a quel punto, solo a quel punto, si voltò verso di lui con uno sguardo di vago rimprovero.

«Ok, non me ne fotte un cazzo di cosa dice Köhler, adesso esco prima e torno a casa.»

«Richard...»

Ma Richard riattaccò. Prima di trovare Verena distesa sul marciapiede di fronte al portone del palazzo, Sonne stava andando da lui in modo da unire le forze per farla tornare, in qualche modo.

Verena riprese a guardare dinanzi a sé.

Sonne non riusciva a muovere neanche un passo verso di lei. Quando ci aveva provato, in strada, per posarle la giacca sulle spalle, lei si era scostata bruscamente e aveva salito le scale senza dire una parola. Sonne l'aveva seguita fino al terzo piano, ipnotizzato dal dondolio dei suoi capelli, l'unico dettaglio che lo catturava abbastanza da non fargli fare i conti con il suo corpo nudo e pieno di graffi. Stava pregando che i pochi passanti che l'avevano vista non sospettassero che fosse stato lui a ridurla così, anzi, che fosse addirittura troppo buio per accorgersene.

Era ancora nuda.

Non se n'era vergognata neanche per un secondo, anzi, aveva rigettato l'idea di essere coperta. Era stato lui a vergognarsi per entrambi. Si era immaginato al suo posto, senza vestiti davanti a degli sconosciuti, e aveva dovuto reprimere il principio di panico che era venuto a galla. Ma lei era una donna. Sul corpo delle donne erano inscritti significati diversi dall'alba dei tempi. Avrebbe dovuto sapere quanto fosse pericoloso esporsi così e quanto fossero pericolosi gli sguardi.

Anche il suo probabilmente lo era.

Avrebbe dovuto mettersi qualcosa addosso.

Si era andata a sedere sul divano e non si era più alzata. Sul pavimento, lungo il tragitto che aveva percorso, si distinguevano delle piccole e opache macchie di sangue che erano traccia di lei, della sua presenza. Si era ferita i piedi, ma dalla bocca non sbocciava nemmeno un lamento. Era la seconda volta che insanguinava il suo cammino in quella casa. Un prurito sui polpastrelli esortava Sonne a lavarle via il prima possibile.

Rimasero in silenzio per qualche altro istante, e la distanza tra loro non si colmò. Sonne non trovò neanche il coraggio di allontanarsi da lì per prenderle qualcosa con cui medicarsi. Sentiva che si sarebbe sbriciolato al suolo se avesse osato muoversi.

«Stai bene?» le chiese infine, con una voce che non sembrava la sua.

Era vero, Verena era sconvolta, ma era anche piuttosto lucida, persino tranquilla. Doveva essere l'effetto residuo del Lorazepam, che era anche il motivo per cui non erano riusciti a comunicare, o almeno era questa l'ipotesi. Però nella sua immobilità c'era una forma di determinazione, come se dentro di sé stesse prendendo delle decisioni importanti di cui lui non doveva essere messo al corrente, perché non lo riguardavano.

NEBELDove le storie prendono vita. Scoprilo ora