XLVI. Dämmerung

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N E B E L

XLVI.

Dämmerung



Era stato così impegnato a guardare qualcun altro, per settimane, che non si ricordava più com'era guardare se stessi.

Si scrutava, Richard, in uno degli specchi del salotto. Seduto sulla poltrona alla luce della lampada, con la schiena dritta. Alla sua sinistra, la porta sprangata della stanza di Verena. Anche se la vedeva soltanto con la coda dell'occhio, gli incuteva soggezione come un'ombra all'angolo che stava in agguato per lui.

Per qualche motivo, il suo corpo tanto frenetico non azzardava il minimo movimento. Si limitava a deglutire. Un sudore freddo gli percorreva la nuca, e temeva persino di sbattere le palpebre. Senza di lei, poteva affidarsi soltanto ai propri occhi.

E a Sonne.

Sonne, che dormiva sul divano lì accanto con un'espressione sofferente e il pollice lacerato premuto contro il petto, ancora all'oscuro di ciò che aveva fatto. Richard non aveva pensato neanche per un istante a quale sarebbe stata la sua reazione. Era così concentrato che, in fondo, non gli importava nemmeno. Era passato molto tempo dall'ultima volta che se n'era infischiato così del giudizio di Sonne.

Nello specchio, seppur con uno sguardo un po' stralunato, sembrava diverso.

Questo sono io?

Lo spaventava vedere uno sconosciuto al posto del proprio riflesso, ma allo stesso tempo c'era anche un certo grado di curiosità per la trasformazione che era avvenuta, l'ultimo stadio di una metamorfosi, come se si fosse risvegliato nei panni della farfalla dopo il bruco e dovesse abituarsi alla sua nuova forma...

Non chiudere gli occhi, non chiudere gli occhi, non chiudere gli occhi...

Era rischioso starsene da solo, ma non svegliò Sonne. Voleva dare a Verena tutto il tempo necessario.

Non pensò ad altro, solo a guadagnarsi altri minuti di vita.

Forse dopo un quarto d'ora, si sentì il suo sguardo addosso. Richard si voltò verso di lui. Sonne si strofinò le palpebre, si passò una mano sul viso ruvido, sul doppio mento che gli creava quella posizione. Si fissarono apaticamente per qualche secondo come se fossero automi e non persone in carne e ossa. Ah, si è svegliato. Ah, Richard.

Ma nel quadro di Sonne subito qualcosa non tornò.

Richard non doveva essere lì.

E la porta era chiusa.

Nel giro di un attimo, il suo respiro si velocizzò e tutto il suo corpo divenne una tavolozza di panico, come in un dipinto di Munch.

Ancora intontito, scivolò su un fianco e si alzò in fretta dal divano, rischiando di inciampare nel tavolino da caffè – si resse con una mano al muro e corse nella stanza di Verena spalancando la porta.

Richard lo seguì per inerzia.

Affrontare le conseguenze delle sue azioni fu piuttosto semplice. Rimosso l'ostacolo della porta, i vani di realtà si mostrarono in una continuità dolceamara e conciliante, senza nessuna sorpresa.

La stanza era una tomba profanata. Si respirava aria di morte, ma non c'era un corpo. Nessuna traccia di lei, nemmeno un capello, sul letto o sul pavimento. Le corde erano ancora afflosciate alle sbarre della testiera come pelle vecchia di serpenti.

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