XLIV. Das letzte Wort

556 27 142
                                    


N E B E L

XLIV.

Das letzte Wort



Aveva dovuto infilarle un panno appallottolato in bocca.

La mattina in cui si era svegliata con le corde ai polsi, Verena aveva cominciato a sbattere le gambe sul materasso e a urlare come una belva uscita di senno. Qualcuno, in strada, avrebbe potuto sentirla. Era stato necessario.

Non che Sonne si aspettasse una reazione diversa.

La sopportò senza particolare turbamento. Non aveva paura di guardarla in quegli occhi iniettati di sangue. Non riusciva a farlo sentire in colpa. Vedeva la situazione in maniera perfettamente lucida, e sapeva benissimo di aver adottato delle misure estreme, se non criminali, per far fronte al problema. Ma non c'era alternativa.

Si prendeva comunque cura di lei. Questo avrebbe potuto apprezzarlo. Stava facendo tutto ciò perché non morisse. Per il suo bene. Nonostante avesse provato ad ammazzarlo. Nonostante fosse una cannibale squilibrata. Era ancora crudele, da parte di Sonne, un trattamento del genere?

Almeno Richard sembrava capire.

Era lui a sorvegliarla, quando Sonne si allontanava per prendere del cibo, dell'acqua o la padella per i bisogni, che le aveva fatto usare anche nel periodo di convalescenza dopo l'intervento all'utero, e che era costretto a usare anche Richard pur di non allontanarsi. Cercava di lasciarli soli il meno possibile. Se Verena avesse tenuto gli occhi chiusi troppo a lungo, avrebbe rischiato di far sparire Richard. Per questo tornava da loro in fretta, con un'ansia a scorticarlo sottopelle.

Ma erano sempre lì.

Per giorni rimasero lì, l'uno di fronte all'altra. Richard sulla sedia e Verena con le braccia spalancate contro la testiera del letto. Se lei non avesse gettato la videocamera dalla finestra sarebbe stato tutto più semplice. Erano dovuti tornare alla simbiosi assoluta. Ciò che faceva realmente paura era domandarsi per quanto sarebbero potuti andare avanti così.

Sonne evitava di pensarci. Si chiedeva, piuttosto, perché Verena si fosse liberata della videocamera. Riflettendoci, si era reso conto che non era affatto un'operazione indispensabile per il suo suicidio. Anzi, era stato proprio il rumore ad allertarli. Doveva averla buttata solo per fargli un dispetto, per sottrargli il suo terzo occhio.

Le urla e i ringhi e i calci erano durati meno a lungo di quanto aveva preventivato. Dopo qualche ora, quella mattina, aveva perso ogni energia residua. Si era accasciata in una posizione quasi innaturale al centro del letto e così era rimasta, sopraffatta e con il viso pietrificato, per tutte le ore a venire. Prima o poi il materasso l'avrebbe assorbita e inglobata come sabbie mobili. Sarebbe stata la sua tomba, se avesse continuato a digiunare.

Di tanto in tanto sembrava guardare Sonne come se volesse dirgli: D'accordo. Vuoi che muoia così? Morirò comunque, stanne certo. Respirava in respiri profondi dal naso, con la bocca otturata e il petto che si sollevava lento. Ognuno di essi poteva essere l'ultimo, per quanto ne sapeva.

Già dal secondo giorno le portò da mangiare. Una zuppa di verdure in scatola riscaldata al microonde. Le sfilò il panno dalla bocca come un mago che tira fuori un foulard da un cilindro, mentre lei gli rivolgeva uno sguardo adirato, e le avvicinò il cucchiaio ricolmo alle labbra, appoggiando un ginocchio al materasso, attento a non versarglielo addosso.

Verena girò il volto dalla parte opposta.

Non pareva neanche lontanamente tentata dalla fame.

«Verena» disse lui, il cucchiaio sospeso tra loro. «Mangia.»

NEBELDove le storie prendono vita. Scoprilo ora