XLIII. Fasten

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N E B E L

XLIII.

Fasten



Stavano entrambi seduti sul divano con le mani intrecciate.

Richard muoveva freneticamente una gamba su e giù. Ogni tanto gettava delle occhiate nervose alla stanza di Verena.

La porta era aperta. La vedeva stesa sul materasso nella penombra, con il volto affondato nell'avambraccio. Aveva portato la videocamera con sé, che la osservava impassibile dal mobile di fronte al letto, l'unica rimasta a non aver paura di lei.

Non riusciva neanche a guardare Sonne. Con la coda dell'occhio, sapeva soltanto che se ne stava immobile accanto a lui.

Nell'aria c'era ancora puzza di vomito e un silenzio che faceva fischiare le orecchie. Doveva essere trascorsa la mezzanotte.

Richard si sentiva sventrare a poco a poco da una lama sottile di panico. Cosa diavolo dovevano fare adesso? Qualche ora prima, Verena aveva tentato di ammazzare Sonne.

E aveva rischiato di ferire gravemente anche lui.

Non le era importato.

Dovevano lasciarla lì e attendere che prendesse di nuovo l'iniziativa? Dovevano allontanarla?

Qualsiasi soluzione gli risultava inconcepibile e sbagliata. Intanto, il tempo scorreva e sembrava voler far tornare tutto... normale. Il tempo non si curava di loro.

Una parte di Richard non riusciva nemmeno a incolparla, né osava rivolgere la parola a Sonne per chiedere spiegazioni.

(Cosa ci faceva, lui, tra quei due pazzi?)

Alla fine trovò un briciolo di coraggio per affrontarlo, quando credette che lei si fosse addormentata – se n'era convinto, più che altro, era molto probabile che in realtà fosse sveglissima, impegnata in una violenta lotta interiore con se stessa.

«È vero?» gli domandò a bassa voce e con lo sguardo puntato sulle scarpe, come un bambino troppo timido.

Sonne voltò meccanicamente la testa e lo fissò, vacuo. Sapeva a cosa si stava riferendo. Non rispose, il che equivaleva a un sì.

«Ma come... Come ti è saltata in mente una roba del genere?»

Era la prima volta che si sentiva sporco all'idea di essere stato generato dalla sua immaginazione, la stessa che aveva prodotto quella tragedia. Verena aveva ragione: lui era stato risparmiato soltanto perché, per crearlo, Sonne aveva pescato dal bacino del reale, dall'altro Richard. A lei, che era nata tutta da lui, erano stati destinati tutti gli orrori che covava dentro. Era la martire della sua fantasia.

Sonne parve sentirsi accusato. «Per l'amor del cielo, Richard, ancora una volta: non è qualcosa che posso controllare. Tu riesci a controllare i tuoi pensieri, le tue idee?»

Ma io non immagino che le persone intorno a me siano cannibali, avrebbe voluto dire. L'hai immaginato anche di me? Mi faresti diventare un mostro con uno schiocco di dita, se ne avessi la possibilità?

«No, ma...» Non continuò la frase.

«Mi è venuto in mente proprio l'altra sera, quando mi ha chiesto cosa avessi in serbo per il suo passato» rifletté Sonne. «L'idea era quella che avesse ucciso suo padre, ma non l'ho mai scritta, perché non ho mai finito il suo racconto, proprio come il tuo. Sai come doveva finire il tuo racconto? Con la mia morte. Non l'ho scritto. È rimasta un'idea. Per questo lei non lo ricordava e aveva questo buco dentro di sé. Ovviamente non gliel'ho detto per non darle questo peso. Ho mentito per il suo bene. Capisci? Non avrei mai voluto che lo scoprisse, ho fatto di tutto per scacciare questa idea da lei.»

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