XLI. Morphin

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N E B E L

XLI.

Morphin



Decine di Richard e Verena vorticanti, così vorticanti che talvolta gli facevano venire la nausea, avevano iniziato a vivere in quella casa. Non erano più soltanto due.

Sonne li sentì rientrare dalla spesa e uscì dalla sua stanza per andargli incontro.

Le loro figure si moltiplicarono vertiginosamente, all'istante, tutt'intorno. Decine di Richard e decine di Verena con sacchetti di plastica e cappelli di lana comparvero da decine di porte, e lo guardarono, in perfetta sincronia, al centro del salotto.

Doveva ancora farci l'abitudine, a quella giostra, a quello strabiliante spettacolo illusionistico riservato a lui soltanto, che da bambino avrebbe scalpitato di vedere, come quando implorava sua madre di portarlo al circo.

Qualsiasi cosa facessero, in qualsiasi danza quotidiana si esibissero, si rifletteva sulla trentina di specchi che avevano appoggiato alle pareti in quei mesi. Una varietà incredibile per una casa così piccola. Specchi nuovi di zecca, specchi ovali, specchi rettangolari, specchi affissi con un chiodo, specchi racimolati al mercato dell'usato o dall'antiquario in Kohlhökerstraße, specchi con le cornici di legno, di metallo, dorate, con intarsi floreali, specchi con le superfici graffiate, specchi deformanti che snellivano le loro sagome. Era come vivere racchiusi all'interno di una gemma, con la luce che rimbalzava ovunque. Se la somma che Sonne aveva stimato era corretta, avevano destinato a quella spesa più di duemilaquattrocento marchi.

Una follia. Una delle tante.

Ma l'aveva fatto solo per loro.

Stava giusto aggiornando il quaderno dei conti prima che tornassero. Sebbene ormai facesse calcoli ogni giorno, si stupiva di quanto poco fosse angosciato mentre segnava con una penna rossa le cifre da sottrarre ai suoi risparmi, o quelle da pagare con più urgenza. Era distratto da altro. Neanche i debiti riuscivano a turbare quello che stava costruendo, o ricostruendo, di cui il denaro era soltanto una vile parte.

Sorrise morbido, circondato dai Verena e Richard reali e riflessi. Gli specchi gli ricordavano che non poteva più esserci un mondo in cui non esistevano. Quella casa senza di loro. Lui senza di loro. Era il trionfo dell'evidenza. La interpretava come una danza perché ricordava che anche Dürrenmatt aveva usato quell'esatta metafora per il labirinto di specchi del suo Minotauro.

«Non abbiamo trovato il Leberkäse, ma in compenso abbiamo preso della carne di vitello» disse Richard, scavando nervosamente in uno dei suoi sacchetti. «Spero vada bene lo stesso.»

«Cucinate adesso?» domandò lui.

«Va bene o no?» insisté Verena. «Richard era in ansia che non fosse quello che volevi.»

Avrebbe potuto rispondere che non andava bene, che non era quello che aveva chiesto, che gli aveva detto mille volte di provare altri negozi se non avessero trovato ciò che desiderava, di uscire prima se si fosse fatto tardi. Ma decise di essere clemente con loro, quella mattina. Una carezza poteva essere efficace tanto quanto un rimprovero. «Sì, può andare.»

«Ok» sospirò Richard. «Ora cuciniamo. Sto morendo di fame.»

«Bene. Chiamatemi quando è pronto.»

Compiaciuto della propria benevolenza, tornò in camera. L'unica stanza priva di specchi. Era l'unico tra i tre che poteva permettersi di assentarsi allo sguardo di qualcun altro. Per quanto lo riguardava, non sopportava né il proprio riflesso né di essere ripreso da una videocamera. Ma era consapevole di quanto fosse necessario tutto quello.

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