XXVIII. Geister

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N E B E L

XXVIII.

Geister



Fu il rumore delle chiavi che ruotavano nella serratura, con una forza tale che sembrava volessero distruggere la porta di casa e non di aprirla, a farle alzare lo sguardo dal tavolo.

In lei si snodò un moto di euforia.

Finalmente. Finalmente sei tornato da noi.

Verena abbandonò l'impasto per i biscotti che stava preparando, un soffice panetto appiccicoso, si sciacquò al volo le mani e si precipitò in salotto. Richard, che la stava osservando dal divano, si alzò in piedi e la seguì, ma rimanendo un po' indietro.

Si erano rinchiusi con molte mandate. Non per paura che qualcuno potesse entrare nell'appartamento e saccheggiarlo, bensì per esprimere concretamente la determinazione di restare dentro.

Sonne, annullato quell'ostacolo, comparve sulla soglia.

Verena accolse il brivido di sollievo che la pervase in un'onda dalla base del collo ai talloni, tuttavia non bastò a farle dimenticare l'ansia tremenda che aveva provato in quei due giorni. «Diamine, Sonne, si può sapere dov'eri finito? Ci hai fatto morire di paura... potevi almeno avvisare che saresti stato via un altro giorno!» Cercò di non farlo suonare troppo come un rimprovero, anche perché le stava nascendo spontaneamente un sorriso tra le labbra.

Sonne però la guardò a stento, forse nemmeno la ascoltò. Non solo gli tremava la palpebra, ma anche il respiro tra i denti, e aveva le guance arrossate dal freddo. Verena si accorse subito che qualcosa non andava. Il suo lungo cappotto nero era sgualcito, pieno di pelucchi e bagnato di pioggia, come se non se lo fosse mai tolto da quand'era partito, e così i suoi capelli. Dava l'impressione di un tronco d'albero sopravvissuto per miracolo a una frana.

Si voltò per cercare Richard con lo sguardo. Quando lo individuò – gli ci era voluto qualche secondo in più per vederlo davvero – lasciò scivolare lo zaino a terra e si fiondò su di lui.

Gli afferrò il volto con entrambe le mani, ma non per baciarlo. Solo per fissarlo, con gli occhi spiritati.

Richard indietreggiò fino al muro, sorpreso da quel gesto insondabile, ma Sonne non gli tolse le mani di dosso, anzi, lo spinse anche lui contro il muro, a dire il vero Verena non capì da chi dei due venisse l'azione.

Richard non riuscì a parlare. Sonne prese a tastargli la faccia, la fronte, gli zigomi, il naso, la mandibola, le durezze che permettevano alla sua faccia di essere quella che era e di non sciogliersi all'improvviso in una brodaglia di carne e sangue. Cercava qualcosa. E tutto, del volto di Richard, non faceva che confermargli di non averla – o averla – trovata.

Anche lui aveva spalancato gli occhi. In un certo senso, la sua espressione e quella di Sonne erano identiche. Riflettevano un tipo di terrore diverso, però. Richard non capiva cosa stesse accadendo, e la sua paura, così vivida da avergli fatto assumere il colorito di un crisantemo, era la diretta conseguenza di quel disorientamento.

Sonne, invece...

Sonne smise di toccarlo e fermò le mani sul suo collo. Solo allora Richard trovò delle parole da pronunciare, seppur ancora pietrificato e intrappolato dal corpo dell'altro.

«Ma... che ti prende?» chiese in un soffio.

Sonne si scostò bruscamente e arretrò di un paio di passi, oscillando su se stesso, senza mai distogliere lo sguardo da Richard.

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