XXV. Totentanz

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N E B E L

XXV.

Totentanz



Avevano iniziato a vivere nella follia e lui era l'unico a conservare un barlume di ragionevolezza.

Poteva quasi vantarsene. Stava riuscendo a mantenere i nervi saldi nonostante tutto. O forse la follia aveva colpito un po' anche lui. Sonne non aveva mai scritto con un tale trasporto in vita sua. Era preso da una curiosa febbre di ispirazione che doveva sfruttare il più possibile, e un giorno si era persino accorto che la fronte gli scottava davvero, quando si metteva a scrivere. Le lettere sulla tastiera iniziavano a sbiadire sotto i suoi polpastrelli e la leva del carrello si era bloccata già un paio di volte per la frenesia con cui andava a capo, frase dopo frase. Un giorno avrebbe dovuto cedere e comprarsi un computer, si diceva, perché un romanzo di quella mole non era fatto per le macchine da scrivere.

Con i racconti era diverso. Con il romanzo sentiva la necessità di tornare su ciò che aveva scritto per correggere, ampliare, tagliare fino a raggiungere un risultato che rispecchiasse al meglio le immagini che gli apparivano nella testa, e di conseguenza il processo di scrittura continuava anche quando non stava alla scrivania. Prendeva i fogli corrispondenti al capitolo più recente e girava per casa assorto, intento a consultare gli appunti sul suo taccuino e ad aggiungere segni con la penna solo a lui comprensibili. Poi ricopiava il capitolo con le modifiche così da averne una versione pulita.

Sulla scrivania riposavano ordinatamente una accanto all'altra due pile di pagine. Il loro volume gli procurava un benessere profondo: era difficile farsi venire in mente qualcosa che lo soddisfacesse di più. Per la prima volta da che ne aveva memoria, Sonne non voleva essere qualcun altro, bensì solo e soltanto se stesso. Lui che si era scelto il proprio nome e che così aveva forgiato, come un demiurgo, la propria identità, insieme a quel mondo che si espandeva sulla carta.

Era nella follia che stava abbracciando quella rinnovata fierezza, anzi, senza di essa non sarebbe mai stato in grado di raggiungere uno stato di produttività simile. Quando si chiudeva nella sua stanza e si sedeva davanti alla finestra per dedicarsi al romanzo, però, si elevava rispetto a tutto il resto. Richard e Verena gli invidiavano questa capacità. Loro non facevano altro che pensare alle sparizioni. Probabilmente sarebbe piombato nella stessa disperazione a breve, quando le sparizioni sarebbero cominciate anche per lui.

A fine giornata gli dolevano le mani. Se le massaggiava l'una con l'altra con un'espressione che Verena una sera aveva definito, non senza un accenno di biasimo, di appagamento. Aveva ragione. In quel dolore aveva trovato un tipo di felicità che non aveva mai conosciuto, nemmeno quando aveva iniziato a scrivere racconti da ragazzino. La felicità stava proprio nell'aver sormontato il blocco insormontabile che l'aveva tenuto fermo per più di due anni. Un'impresa che fino a qualche mese prima non sembrava neanche lontanamente possibile.

Sulla scia di quella sensazione nuovissima aveva preso una decisione che gli era apparsa naturale oltre che necessaria: non avrebbe rivisto suo padre finché il romanzo non fosse finito. Era terrorizzato all'idea di perdere di nuovo l'ispirazione se l'avesse incontrato. Per questo aveva saltato la sua annuale visita a Dresda. Era iniziato tutto così, d'altronde. Era bastato uno sguardo complessivo alla sua persona dopo quattordici anni di distanza. Il momento in cui, da un'anonima porta, era emerso un vecchio, un vecchio ritardato rinchiuso in manicomio, con un camice stinto e un infermiere al suo fianco. Quello è mio padre. Ed ecco! Condannato ad essere bloccato per due anni, fino all'arrivo di Richard e Verena. Era bastato così poco perché gli si formasse un nodo strettissimo, dove?, nella mente, rinsaldato ogni giorno di più dal disgusto e dal senso di colpa.

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