Capitolo 3.

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Mercoledì, 23 Settembre 1964

«Ti vedo preoccupata, mia cara. Qualcosa ti turba?»
La signora Dijatlov poggia la tazza di tisana sul tavolino che ho posto dinnanzi alla finestra appannata dal freddo.
«No, Tatiana.. Ti ringrazio.»
Le sorrido mentre sfoglio un vecchio diario nel quale finalmente trovo ciò che stavo cercando. Raccolgo delicatamente il vecchio fiore secco ormai ridotto allo spessore di una pagina tra le dita. Il colore della rosa si è perso, ma trattiene un dolce profumo forse un po' invecchiato che mi fa sorridere. Sposto lo sguardo sulla finestra che non mi permette di vedere fuori, ma poco mi importa: la mia mente è distante, nella lontana Shanghai, dove ho mandato il Soldato d'inverno. Sono passati otto giorni e non posso negare di essere preoccupata per lui e per cosa sarebbe successo a me e mio padre se avessero scoperto che non ho eseguito gli ordini di sottoporre il sergente Barnes ad ulteriore eletrroshock. E se avesse comportato conseguenze più serie di quelle che ho immaginato? Se non dovesse più tornare?
Stringo il manico della tazza bollente e me la porto alle labbra, sto per buttar giù il primo sorso quando dei colpi violenti alla porta mi scuotono.
«Avanti.»
Due guardie in divisa fanno il loro saluto militare.
«Signorina. È richiesta urgentemente di sotto.»
Mi alzo immediatamente in piedi.
«Si tratta di..?»
I due annuiscono e io lascio la tazza e prendo la mia giacca per seguirli.
«A dopo, Rose.»
Saluto Tatiana con un sorriso veloce e mi precipito lungo il corridoio per raggiungere i sotterranei quando mi imbatto in Anatoliy.
«Hey, Agente Karpov. Dove si va così di corsa?»
Anatoliy riesce sempre ad essere di buon umore, anche quando mi vede tanto impicciata da potergli passare sopra come un carrarmato per la fretta. Sebbene sia il mio migliore amico da praticamente sempre, non posso dirgli a cosa sto lavorando.
«Ciao Coda Rossa. Mio padre mi ha convocata, sai com'è quando da ordini.»
«Oddio, il temibile cosacco ha chiamato!»
Enfatizza teatralmente quelle parole e si sposta per lasciarmi passare.
«Shhh, vuoi che qualcuno gli racconti che lo chiami così?»
Gli do una spintarella e riprendo la mia via.
«Che importa? Tanto mi adora.»
«Credici!»
Entro nell'ascensore e digito in fretta il codice di accesso ai piani più bassi.
«Cos'è successo?»
Uno dei soldati alle mie spalle fa un passo avanti e mi risponde formalmente, come da protocollo.
«Il Soldato ha portato a termine la missione. Al suo rientro ha presentato delle anomalie di sistema.»
Mi giro verso di lui. A volte penso che abbiano fatto il lavaggio del cervello a tutte le nostre guardie.
«Anomalie? Spiegati, che vuol dire?»
Per fortuna, la risposta mi arriva direttamente quando le porte si aprono e vedo l'affannato andirivieni di persone vestite di camici bianchi ingaggiati nella squadra affiliata al progetto, i rumori dei carrelli, delle voci e di urla di dolore.
Attraverso l'atrio a passo spedito nonostante i tacchi e mi affaccio nella sala dove stavolta il Soldato d'Inverno è legato ad un lettino.
«Cos'è successo?»
Mi avvicino quasi di corsa per avere libera visuale sull'uomo e vedere che gli stavano premendo un asciugamano sul torace per fermare la fuoriuscita di sangue.
«Corpo estraneo all'altezza dello sterno, dobbiamo tirarlo fuori, ma la ferita si rimargina troppo in fretta. È un frammento di vetro, se lo lasciamo dentro ancora a lungo, le contrazioni lo faranno muovere fino al polmone sinistro.»
Vedo la mano di una delle infermiere stringere un bisturi e infilarlo sotto l'asciugamano, provocando altre grida e lamenti. Gli stavano riaprendo la ferita. Impresa non semplice visti i continui spasmi del Soldato.
I miei occhi si spostano di prepotenza sul viso del Sergente, teso e sudato e lo vedo socchiudere le palpebre e guardare verso la ferita, fulminare tutti coloro attorno al lettino e poi fissare me.
Andrà tutto bene. Cerco di dirgli col labiale, ma poi il suo volto si piega in un'ulteriore maschera di dolore facendomi dubitare di quanto ho appena detto.
«Quanto manca?»
Chiedo all'uomo con in mano un paio di lunghe pinze che mi provocano i brividi.
«Signorina, io.. Beh, stiamo tutti aspettando il medico.»
«E perché non è ancora qui?»
La faccia dell'infermiere è preoccupata e non fa altro che alzare una spalla.
«Non ne abbiamo idea.»
«Oh, invece sì che ce l'abbiamo.»
A parlare è la donna che aveva in mano il bisturi, si sta levando il guanto macchiato di rosso mentre si rivolge a me.
«Il Dottor Schwartz è dell'idea che lei non sia in grado di dirigire questo progetto, per questo non verrà.»
Stringo le labbra e passo attorno al lettino per ritrovarmi davanti a lei.
«Cosa vuol dire, io non sono un chirurgo. Qui si tratta di salvare una vita.»
«Sostiene che lei debba essere in grado di farlo da sola.»
Sento le braccia cadere. Vorrei avere quel miserabile tedesco davanti, ma so che se andassi a cercarlo allungherei soltanto la sofferenza dell'uomo a cui probabilmente devo la vita.
Afferro bruscamente le pinze dalla mano dell'infermiere e prendo un respiro profondo.
«D'accordo, togli l'asciugamano.»
«Signorina.. Ne è sicura?»
«Tu sapresti farlo?»
Ricevo un no come risposta.
«Bene, allora toglilo.»
Dopo qualche minuto che pare un'eternità, il frammento di vetro viene estratto e lasciato cadere su un piccolo vassoio di metallo.
Ho studiato molto anatomia, ma la teoria è enormemente diversa dalla pratica.
Lascio le pinze e aspetto che suturino la ferita prima di congedare tutti. Torno al mio posto accanto all'uomo e guardo il cerotto bianco che ora spicca appena sopra il suo fianco sinistro.
«Com'è successo?»
Il Soldato ariccia le labbra come in una smorfia irritata.
«Hanno fatto esplodere una cappella buddhista mentre ero dentro. Subito dopo che ho ucciso il governatore.»
Il suo torace si espande per un sospiro profondo ed io non posso fare a meno di guardarlo. I miei occhi mi trascinano lì, tra le linee definite e gli avvallamenti dei suoi muscoli allenati dalle intense sessioni di addestramento e solo un pensiero logico riesce a staccarmene.
«C'era altra gente lì dentro?»
Inizio a liberarlo dai blocchi che lo fermano sul letto di ferro e lo vedo seguire con lo sguardo i movimenti delle mie mani e poi annuire.
«E perché uccidere degli innocenti..?»
Borbotto tra me e me senza aspettarmi risposta, visto che il Sergente sembra dimostrarsi un uomo piuttosto silenzioso.
«Erano terroristi Samurai. Avevano lo stesso obiettivo, probabilmente, ma il governatore era sotto il tetto d'oro che protegge la statua. Non lo avrebbero ucciso.»
«Tetto d'oro? Come al Cremlino?»
Non sono mai stata in Cina, ma immaginare destinazioni lontane è sempre stato uno dei miei passatempi preferiti. Non c'era molto altro da fare in una base segreta della Siberia.
«Non così imponente, no.»
Con uno slancio veloce si mette seduto ed io mi ritrovo il suo volto fin troppo vicino al mio. Nella mia memoria ho impressi soltanto i suoi occhi, ma adesso ho il tempo di memorizzare gli altri lineamenti e realizzare con un pizzico di vergogna verso i miei stessi pensieri quanto fosse.. Bello.
Il mio cuore si stringe all'idea che questa sera stessa dovrò dire a mio padre che abbandono il progetto. Mi si stringe per come lui mi sta guardando, come se stesse cercando di scavarmi dentro ed è la prova che non potrò mai seguire le regole di quel progetto. Non riuscirei a fargli dell'altro male.
Faccio un passo indietro e gli faccio cenno di seguirmi.
Passo accanto alla sedia operativa dove adesso dovrei far sedere il Soldato, ma procedo oltre.
Ce lo avrebbero messo nuovamente, avrebbe ancora subito quella tortura, ma non sarei stata io a premere il pulsante.
D'un tratto, vedo la sua ombra affiancarmi con la coda dell'occhio e quando giro appena il capo, qualcosa mi blocca la gola e mi spinge ad indietreggiare finché non urto contro il muro.
«Perché non hai guardie con te?»
Lo sento ringhiare quella domanda prima di riuscire a focalizzare la sua immagine nella luce fioca. Porto le mani sulle sue dita strette attorno al mio collo e sbianco quando sento di star lottando contro l'acciaio.
«Perché se ci fossero dovrei farti quelle cose orribili.»
Bisbiglio a difficoltà mentre cerco l'aria a bocconi, mi sembra di notare le sue labbra avere un fremito per la mia risposta.
«E cosa mi impedisce di ucciderti adesso e andarmene?»
Lo osservo mentre le linee si fanno sempre più sfocate e una piccola lacrima straripa per scendere sulla mia guancia come un rigagnolo e cadere sul suo braccio meccanico.
«So che non lo faresti.»
Il volto dell'uomo si distende per una frazione di secondo e così anche la sua presa su di me.
«Lo so perché una volta hai impedito che accadesse.»
La sua mano si apre di scatto e nel solo tentativo di riprendere aria, finisco a terra, tossendo.
«.. Cosa?»
Fa per piegarsi su di me, ma il mio primo istinto è di allontanarmi, affannandomi sul pavimento gelido. Alzo un braccio verso di lui per fermarlo.
«S-stai lontano da me.»
La sua espressione mi fa quasi pentire della mia reazione. È confuso, addolorato, le mani ancora protese in avanti per prendermi.
«Rose, mi dispiace. Io non.. Non ricordo nulla.»
Mi appoggio al muro per rialzarmi ed evito il suo sguardo mentre recupero la mia vecchia ricetrasmittente dalla giacca. Premo uno dei pulsanti e me l'avvicino alla bocca.
«Rokeshova, qui è Karpov. Entrate per favore.»
Sento un sospiro rassegnato e mi fa più male di quanto dovrebbe sapere di doverlo lasciare per sempre in quella maniera.
«Rose..»
Scuoto il capo. Non voglio sentirlo.
Le porte si spalancano poco dopo e i soldati dell'Hydra hanno i mirini puntati contro il mio, di soldato.
Poi due di loro lo bloccano e lo trascinano nella capsula di refrigerazione. Quella scena mi è maledettamente familiare ed è solo adesso che mi permetto di fermare i miei occhi nei suoi. La porta viene sigillata e il procedimento avviato.
«Mi dispiace.»
Ripete da lì dentro e posa una mano verso di me sul rettangolo di vetro prima che la temperatura scendesse di troppo, trascinandolo verso un sonno forzato.
«Signorina..? Si sente bene?»
Annuisco a Rokeshova, ma la verità è che non sto affatto bene.

Mi trovo davanti alla porta di quercia dello studio di mio padre. Un fazzoletto di seta mi copre i segni sul collo e non riesco a togliermi dalla mente quel che è accaduto qualche ora fa.
Nonostante tutto, una parte di me non vuole lasciare, sa che se lo facessi lui continuerebbe a soffrire e a dimenticare.
Ma la parte razionale sa anche che questo è il suo destino e che non potrei fare nulla per aiutarlo, ma solo prolungargli la sofferenza nell'illusione di poter star meglio.
Non sono più sicura di essere nel giusto, ma devo farlo prima di ripensarci.
Busso alla porta e immediatamente la voce di mio padre mi invita ad entrare.
Abbasso lo sguardo sul libro rosso con una stella nera che stringo tra le mani e le mie gambe non si muovono.
«Avanti, ho detto.»
Il mio cuore singhiozza e le mie braccia si stringono quel libro al petto.
La porta si spalanca.
«Per la miseria, sei sordo per caso razza di... Rozaliya.»

Alzo lo sguardo e provo a sorridere.

«Salve, padre.»

«Che piacere vederti, figlia mia. Hai novità per me?»

Annuisco e le mie unghie quasi affondano nella rigida copertina.

«Sì. Volevo dirti che è andato tutto bene.»

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