40. The Monet Affair

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"Che ci fai qui?"

Non mi sforzo neanche di sembrare cortese.

Spingo a fondo le mani nelle tasche del cappotto, laddove il taffettà inizia a sfilacciarsi, e lascio che il mio tono suoni seccato, rassegnato e profondamente stanco.

"Ho trovato il biglietto"

Nessuno dei due guarda l'altro.

I nostri occhi restano fissi sul tabellone delle partenze, perché questo sembra essere l'unico modo di dialogare senza che i rispettivi sentimenti prendano il sopravvento.

"Torna a casa" ordino, in un soffio.

Mi stupisco di quanto convinta e fredda risulti la mia voce, ma è una sorpresa del tutto vuota.

È ciò che mi aspetto da me stesso, in fondo.

Ci sono emozioni che non riesco a provare se non tenendole a distanza.

"Torniamo insieme, a casa". Non c'è giudizio, in questa risposta. Solo un accenno di velata, timida delusione, a malapena percepibile oltre la determinazione. "O non torniamo affatto. Ma sempre insieme"

Qualcuno ride, una risata bassa e sgraziata, quasi inquietante.

Impiego qualche secondo per capire che è la mia.

"Stronzate" commento, freddamente. "Vattene, adesso"

Nessun movimento al mio fianco.

"No"

Così fottutamente testardo.

"Vattene" ripeto, e stavolta i miei occhi si riempiono di lacrime trattenute, la voce mi si spezza. "O non sarò capace di andarmene neanche io"

Per un attimo sembra che il mondo si oscuri, tutto d'un tratto, ma immediatamente dopo arriva la percezione di due braccia che mi stringono forte e una sensazione pungente, come di lana sulle guance.

Ho il viso schiacciato contro un maglione e il corpo che continua a tremare, ma il profumo che mi invade  le narici è così familiare che, se solo ne fossi capace, piangerei di sollievo.

"Resta". Non un obbligo, neanche una supplica. Un invito, forse. "Non c'è niente che non possiamo affrontare"

Continuo a singhiozzare, le mie dita si aggrappano convulsamente agli spiragli di scapole che riescono a intaccare attraverso i vestiti.

Gli sto facendo male, probabilmente, ma non ho la lucidità per rendermene conto, né le mie mani vengono allontanate.

Mi lascio andare ad un pianto senza lacrime, una specie di ricerca ossessiva di aria. I singulti mi spaccano i polmoni e mi fanno dolere la gola, ma ci sono dita tra i miei capelli, e braccia che mi sostengono quando inizio a traballare.

"Non ce la faccio più" singhiozzo, e non so neanch'io a cosa mi sto riferendo. "Non ce la faccio"

È un sentimento generalizzato, questo: come se avessi ignorato a lungo la crepa che si allargava sotto al mio petto, sino al punto di rottura. Le schegge mi esplodono ora intorno, affilate. Non posso camminare, non posso andare avanti senza che mi lacerino i piedi.

"Non importa. Hai fatto benissimo fino ad ora". Di nuovo: una totale assenza di giudizio. Balsamo sulle ferite. "Da qui in poi continuo io. Puoi riposare"

"Mi dispiace" sussurro, rafforzando la stretta.

"Non importa. Sono solo felice di averti trovato" risponde, dolcemente. "Torniamo a casa?"

"Non ora"

"Allora guidiamo finché non ci viene voglia di tornarci" si corregge, con semplicità. "Dai, dammi quella roba"

𝐀𝐔𝐃𝐄𝐍𝐓𝐄𝐒 𝐅𝐎𝐑𝐓𝐔𝐍𝐀 𝐈𝐔𝐕𝐀𝐓 - mclennonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora