9. Il segreto di Nitocris e il miracolo di Sofia

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Tabita lanciò il coltello, certa che questa volta sarebbe stata quella giusta; invece l'arma urtò il fantoccio di legno con il manico e cadde a terra. Riprovò, ancora e ancora, finché non perse la pazienza e lo scagliò contro il muro, gridando di frustrazione.

«Con quello non ci riuscirai mai.»

Era stata sua madre a parlare. Tabita rimase paralizzata. Si era nascosta nel capanno degli attrezzi, camuffato al limitare del bosco. Dentro, ovviamente, di attrezzi non ce n'erano più, perché la fame sapeva superare qualsiasi filo spinato, ma Tabita aveva scoperto che suo fratello aveva costruito in gran segreto un manichino di legno, già sfasciato dai tagli, dai calci e dai pugni.

I loro genitori non volevano che i figli combattessero, per ragioni che Tabita non aveva mai compreso; eppure, Nitocris se ne stava lì, impettita, in tenuta da cacciatore, i capelli raccolti sulla nuca e le braccia incrociate. Si avvicinò a Tabita e le passò un vero e proprio coltello da lancio, piccolino, così affilato che si rischiava di sanguinare solo a guardarlo. Prima di lasciarglielo, lo tenne in equilibrio sull'indice. «Se non è bilanciato puoi usarlo solo per tagliare le patate.» Poi afferrò Tabita per le spalle e la fece indietreggiare di alcuni passi. «Così. Afferralo per la lama.» Le mostrò il movimento che doveva compiere il braccio. «Ferma l'arto quando molli la presa. Devi dare un colpo di frusta con la mano per imprimere la rotazione. Prova ora.»

Ora però a Tabita tremavano le mani a causa dell'emozione, e gli occhi le si riempirono di lacrime.

«Non devi esitare, Tabita. Mai.»

Bastarono quelle parole, quel tono duro, e il ricordo della cicatrice che le segnava il petto come una grande bruciatura a forma di ragnatela, a darle la forza. Tabita lanciò il pugnale e quello si conficcò al livello della spalla destra. Ci fu un attimo di silenzio, in cui lei, incredula, non ebbe il coraggio di voltarsi. Nitocris le sfiorò la testa e se ne andò.

Tabita, rimasta sola, scoppiò a piangere. Si sfogò per alcuni minuti, poi dovette tornare a casa perché il sole stava calando.

Quella sera si azzardò ad entrare nello studio di sua madre; forse, quella era la volta buona. Forse sua madre avrebbe finalmente deciso di allenarla, di insegnarle i segreti del mestiere.

Nitocris sedeva sulla poltrona e leggeva un libro, i capelli sciolti ora le incorniciavano il volto. Tabita rimase sulla soglia, stupita. Raramente vedeva sua madre leggere; nella Periferia Sud i libri scarseggiavano. La sorprese quell'espressione distesa, le gambe piegate sotto al corpo, le spalle rilassate. «Cosa leggi?» le chiese.

«Il libro di un eretico» rispose lei sospirando, dopo un momento di silenzio. Chiuse il libro e lo abbandonò sulla poltrona. «Vai a tagliare una cipolla. Io arrivo tra poco.»

«Mamma, io...»

«Vai a tagliare una cipolla.»

Tabita serrò la mascella. «Sì.»

Più tardi, nel piccolo cucinino, Tabita aiutava Nitocris a disossare la carne. Restarono in silenzio, ma quello era il momento della giornata che Tabita preferiva di più; in presenza di sua madre si placava, diveniva più attenta. Si sentiva, in un certo modo, più adulta.

Nitocris si pulì le mani dal sangue con uno strofinaccio, ordinò i pezzi di carne sopra un vassoio e si diresse alla porta; si fermò, di spalle. Tabita rimase in attesa, con un pizzico di agitazione.

«Troppo coraggio rende le persone imprudenti, Tabita. Ricordalo sempre.»

A notte fonda, quando tutti si furono addormentati, Tabita entrò di nuovo, di nascosto, nello studio di sua madre. Camminò in punta di piedi fino alla poltrona e prese in mano il libro. Era un tomo scritto con il calamo, piuttosto usurato e appiccicaticcio: il titolo, inciso su pelle, recitava: Il ritorno di Lilith. L'attraversò un brivido, ma non fece nemmeno in tempo a sfogliarlo che udì il letto della stanza accanto cigolare. Mollò il libro, con il viso in fiamme per via dell'agitazione, e tornò a dormire.

Il canto della civetta. La Signora della Morte (Vol. 1)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora