Tabita scese dal furgone incespicando e lo raggirò, ma quando giunse nei pressi del guidatore, Zifa la colpì non troppo sbadatamente con la portiera; scese anche lui, l'agguantò per un braccio e la bloccò contro il metallo. Le afferrò saldamente la testa; una grossa ruvida mano le intrappolò la mascella, l'altra le tappò la bocca.
«Lascialo fare. È sotto l'effetto della droga, è la volta buona che ci libera di quella dannata bestia. Ehi, ehi! Calmati.» Tabita si dimenava furiosamente. «Vuoi vivere, ragazzina? Eh? Dimmi, vuoi vivere?» La scrollò finché non smise di muoversi. Poi Tabita gli morse forte un dito, se fosse stata una carota l'avrebbe tranciata. Zifa la lasciò andare come se scottasse, bestemmiando.
«Non toccarmi mai più, sporco... sporco mercenario!» sbottò lei. «Ci sono dei fucili carichi nel furgone, imbecille!» Tabita lo spinse via e ripeté le ultime parole gridando; ma suo fratello non la ascoltò, o forse non la udì. Sembrava ubriaco, di potere e vendetta. Samuel si tolse il mantello e avanzò a passo deciso verso Spaccaossa, che lo attendeva tronfio, sollevato sulle zampe posteriori.
Le parve così surreale, quella scena, che Tabita non sapeva se svenire o lasciarsi andare a un attacco di panico. Si infilò le mani nei capelli, dimenticò persino di stringere delle armi mortali. «Ho detto che abbiamo le armi, Sam! Cristo santo, fermo!»
Zifa aveva lasciato il quadro elettrico acceso, per avvantaggiare Samuel con la luce dei fari. Gettavano nel deserto di cenere un cono pallido, disegnando l'arena. Tabita corse dentro il furgone. Lanciò fuori tutti gli zaini, solo per poi realizzare di non saperne un accidente di niente di pistole e fucili. Costavano troppo persino per i suoi genitori, che erano pur sempre cacciatori e guadagnavano più di chi portava a casa un sacco di patate. Suo padre ne aveva posseduta una, che aveva custodito gelosamente nel cassetto del suo comodino; fino a che un demone corvo non si era impossessato di Samuel e aveva fatto saltare in aria tutto il condominio.
«Serve una mano?» La schernì Zifa. «Fatti da parte.»
In meno di un minuto Zifa caricò una pistola bella grossa, grande quanto l'avambraccio di un mercenario.
«E per me?»
L'uomo la fissò con la coda dell'occhio. «Tanto vale che mi spari una pallottola in testa da solo.» Le diede le spalle e marciò con la sua consueta fierezza drammatica verso il nemico. Prese la mira e sparò ripetutamente alla testa dell'orso, e nel farlo rideva con lo stesso grado di apprezzamento con cui Gita si scolava una birra. Fece un fracasso allucinante; Zifa si rese conto dell'errore che aveva commesso. In quel modo aveva certamente svelato ai militari la loro posizione. Per non parlare del resto.
Spaccaossa si chiamava così per un motivo. In molti avevano provato a farlo fuori. Ci provavano a lungo, a squadre sempre più numerose. Si narrava che le ossa del suo cranio fossero indistruttibili e che la sua carne si rigenerasse all'infinito, come se lo spirito rancoroso del suo umano vagasse ancora insieme a lui, alimentandolo di energia demoniaca. E proprio quando qualcuno capiva come ammazzarlo, ecco che Spaccaossa spariva, e mieteva vittime altrove. Alcuni, ormai, cacciatori compresi, lo consideravano qualcosa di più di un demone. Un mix tra un demone, una bestia, un uomo, un fantasma... insomma, un Negromante. Lo Stregone delle Bestie.
Zifa, dunque, combinò un gran casino. Il demone orso s'infuriò al punto da squartare con una zampata la sommità di un moncone d'albero; lunghi frammenti di corteccia schizzarono verso di loro: alcuni si conficcarono nel parabrezza come saette, spaccandolo definitivamente, altri mirarono dritti alla testa di Tabita, che si abbassò appena in tempo.
Fu in quel momento che Samuel agì. Spinse le braccia in avanti, tese, con i pugni chiusi, e la bestia rotolò via come se lo avesse colpito un treno in corsa. Tracciò sul terreno un solco profondo, rotolando e sbattendo, una linea dritta che si esaurì cento metro più in là. L'orso, che si lamentava, stordito, si rialzò, scosso da respiri affannati. Se per un attimo era sembrato che stesse riprendendo il fiato, quando piantò per bene le zampe nel terreno apparve subito come quel che era davvero: un demone orso incazzato, pronto a caricare. Ma Samuel non gli diede il tempo, lo colpì, ancora e ancora, senza tregua. Tabita l'aveva già visto in quelle condizioni. Sì, almeno una volta nella sua vita, e non lo avrebbe dimenticato facilmente: fu la prima volta in cui capì quanto suo fratello fosse arrabbiato con il mondo. Aveva sempre pensato che fosse annoiato, disinteressato, ma quando l'aveva visto prendere a pugni un ragazzo, fuori dal bar del vicolo, capì. Uno stupore che le aveva impedito di intervenire tempestivamente. Di quel ragazzo non seppe più nulla.
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Il canto della civetta. La Signora della Morte (Vol. 1)
FantasíaDa secoli i cacciatori di demoni tramandano un motto: benedetta dove poggia, maledetta dove guarda. Tabita aveva sempre sognato di udire il canto di una civetta. Ora che è successo, però, la sua casa è distrutta e i suoi genitori sono scomparsi, e n...