Daniel e Sam erano usciti da nemmeno mezzora quando Tabita udì Sofia gridare. Si precipitò in corridoio e spalancò la porticina di metallo del bagno. Tra i cocci di un vetro rotto da chissà quanti anni, aggrappata a un lavandino di ceramica piccino, Sofia piangeva, specchiandosi nell'unico frammento rimasto appeso al muro.
«Cos'è successo?» Strillò Tabita, vinta dalla tachicardia.
«Demonipulce! Demonipulce!» Sofia mostrò le mani all'amica. Si erano rivestite di una sostanza bianca e collosa. Tabita scattò all'indietro e chiuse la porta: doveva correre a prendere gli unguenti della Zingara, prima che quelle bestiacce le saltassero nei capelli, ma con un tuffo al cuore ricordò che quei ladruncoli avevano rubato tutto. Quindi si fece coraggio, tolse la mantellina e l'avvolse attorno ai capelli – anche se sapeva benissimo che i demonipulce, o pulcedemone, andavano ghiotti di berretti e sciarpe. Meglio che iniziassero da lì, piuttosto che dai suoi riccioli. Sofia avrebbe dovuto sicuramente rasarsi i capelli a zero. La ragazza ancora piangeva quando Tabita rientrò e si avvicinò per guardare meglio. Quella terribile sostanza bianca si era attaccata alle radici dei capelli. Con le dita, cercò freneticamente la bestiolina, che doveva pur essere grande quanto un'unghia. La sostanza era così densa che Tabita non riusciva a capire se ci fossero segni di morsi sulla cute, ma non aveva dubbi: lì un demonepulce stava preparando il terreno per le sue uova. Inoltre, alcuni capelli restarono impigliati nella mano di Tabita; si erano sfilacciati, come se dei minuscoli denti aguzzi avessero mordicchiato il capello. Tabita immaginava che la bella chioma bionda di Sofia sapesse di zucchero filato.
«Adesso vado al mercato a cercare un unguento. Stai ferma qui.» Altrimenti mi impesti.
«Non lasciarmi qui da sola!»
«Se vuoi seguirmi, devi rasarti a zero.»
«Mai!»
«Non fare la bambina!»
«Ma se li taglio mi scambiano per un maschio.»
«Meglio, no?»
«No!»
Tabita sbuffò. «Allora resta qui. Mi inventerò qualcosa.»
Valutò l'idea di fare una scappatella nel loro vecchio covo, dove avevano nascosto l'arco e le frecce di Sofia, ma di sicuro avrebbero rubato anche quelli prima di mezzogiorno. Diamine, ma che ore erano? Là sotto giorno e notte non facevano differenza. Si chiuse la porta alle spalle e si tolse una scarpa. Lì, dentro il calzino, nascondeva una bustina di formiche della palude. Ovviamente erano morte stecchite, ma se spalmate sulle superfici creavano una puzza terribile, capace di tenere lontano qualsiasi demone; figurarsi gli esseri umani. Quelle terribili formiche erano diventate così a causa dell'inquinamento dell'acqua di certe zone del pianeta; costavano un occhio della testa, perché nessuno voleva lavorare a contatto con una puzza del genere.
Tabita ne avrebbe distribuito un po' sulla porta, in modo che la gente di passaggio pensasse che il bagno fosse guasto e non disturbasse Sofia; si sarebbe scusata con lei più tardi.
Portò a termine l'operazione e si allontanò correndo. Tenne la mantella in testa, così da non essere riconosciuta – anche se avrebbe potuto pensarci prima. Decise di iniziare la sua ricerca dalla superficie, perché lì si sentiva più al sicuro. Il pugnale non lo avevano rubato perché lei se lo teneva sempre sotto il cuscino.
Tabita fu costretta a ripercorrere i passi della sera prima; scoprì che di giorno i sotterranei si svuotavano e diventavano silenziosi. Solo alcune losche botteghe erano aperte, ma persino una sconsiderata come lei sapeva che non erano luoghi adatti alle ragazzine, con quelle insegne sghembe, i fili dell'elettricità in bella vista, le gabbie, le ceste piene di ossa, occhi, mani. Più un luogo puzzava, più bisognava starci alla larga.
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Il canto della civetta. La Signora della Morte (Vol. 1)
FantasiDa secoli i cacciatori di demoni tramandano un motto: benedetta dove poggia, maledetta dove guarda. Tabita aveva sempre sognato di udire il canto di una civetta. Ora che è successo, però, la sua casa è distrutta e i suoi genitori sono scomparsi, e n...