28. La partenza

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Tabita stringeva tra le mani le sbarre della gabbia, come se lei fosse ancora chiusa lì dentro e desiderasse disperatamente uscire. Teneva lo sguardo fisso sulla sabbia, una distesa liscia ripulita da ogni goccia di sangue, ogni buco, demone e serpente. Come se nulla fosse successo. I ricordi del Torneo la sfioravano in un sogno lontano, un sogno di cui dubitava persino d'esser stata la protagonista. S'immaginò in mezzo al campo, con le dita strette attorno al collo di una ragazza, decisa a soffocarla; s'immaginò impegnata a sfoderare le unghie e i denti, a menare le mani e i piedi, a correre a perdifiato per sfuggire al becco affilato di un demone. E non si riconosceva, non ricordava, non immaginava, come se i ricordi si fossero affievoliti. Per proteggerla, per ripulirsi la coscienza, per dimenticare il volto stravolto di Sofia.

«Sei arrivata troppo tardi.» Disse una voce, rude e biascicata. Un uomo, rozzo e sporco, così mal messo che non si capiva quanti anni avesse, quel che era certo era il suo ghigno, l'espressione folle e apatica mentre scrutava il campo fumando qualcosa di nauseabondo.

«Tardi per cosa?»

«Hanno portato via tutto. Anche le ossa questa volta. Non è rimasto nemmeno un dente. La strega ha sventolato le dita e tutto è sparito.»

Un'immagine bestiale invase la mente di Tabita. I corpi morti dei concorrenti, dilaniati, depredati della dignità, del proprio stesso sangue, prosciugato avidamente dalla sabbia, dagli uomini, dalle mani di quella terra spenta e avida. Il mare non era che una grande spugna. Una marea, una gigantesca onda, e ogni cosa sarebbe stata dimenticata. Tabita corse dietro una pila di casse di legno, piene di frattaglie di pesce, e vomitò. Senza un solo commento si riprese il sacco di plastica che aveva portato con sé, prima che l'uomo potesse rubarglielo. Lo afferrò bruscamente e si diresse alla tenda di Ali. Attraversò il mercato con il cappuccio calato fino agli occhi, ma ben presto scoprì che era proprio il suo fare misterioso ad attirare lo sguardo su di lei. Aveva pensato che il problema sarebbero stati i suoi kartika, che con un incantesimo avevano sottratto la vita, ma si era sbagliata; il problema era lei. E il premio. Ora tutti, ma proprio tutti, sapevano che Tabita aveva un bel bottino da spendere, e quando la parola "vincitrice" uscì dalle labbra del primo, viaggiò di bocca in bocca, finché i mercanti, uomini e donne, non presero coraggio. La chiamavano, alcuni la seguivano per metterle sotto il naso un sacco di fagioli, una borraccia sgranocchiata dai topi, un pezzo di cuoio, dei sandali o uno zainetto. Tabita proseguì in silenzio, a testa bassa, ma quando uno di loro le afferrò la spalla si voltò di scatto sfoderando le mezzelune. Tutti indietreggiarono, qualcuno si coprì il viso, qualcun altro cadde in ginocchio e iniziò a pregarla. Tabita fu sconvolta da quella visione. Gente in ginocchio che la pregava, come se fosse una mercenaria, un cacciatore venuto a dettar regole. Non sono soldati, pensò.

Rifoderò i kartika e raggiunse la tenda di Ali; o meglio, si appostò a distanza e restò in postazione per oltre un'ora, a studiare il da farsi, nella speranza magari di cambiare idea. Ma non successe mai. Anzi capì che sarebbe stato più facile entrare da dietro; scoprì che la tenda aveva un fondo, dove probabilmente Ali e le sorelle dormivano e conservano il cibo. La bottega era in attività, Kamila, quella con le trecce, stava sempre fuori, seduta su una sedia sgangherata a lavorare con due uncini e del filo grossolano. Aveva l'aria molto triste, a parte un panno non aveva scambiato nulla in mattinata. Ma la tristezza restava anche quando qualcuno si avvicinava, e non faceva niente per attirare l'attenzione dei passanti, non si posizionava grintosa dietro al tavolo per mostrare i vestiti che faticosamente mettevano insieme, pezzo dopo pezzo. In mezzo a quel baccano, Tabita ebbe un'illuminazione: Kamila doveva essere muta. E non di certo per scelta, come aveva pensato. Non l'aveva mai udita pronunciare una sola parola, nemmeno a sua sorella Aida, quando di tanto in tanto esibiva il broncio dall'apertura della tenda per comunicare qualche cosa. I mercanti non potevano permettersi il lusso di star zitti, dovevano sgolarsi, richiamare l'attenzione, contrattare, fare dei bei sorrisi. Più guardava quel volto, più Tabita si agitava; forse Ali stava peggio di quel che le era stato detto, forse non potevano permettersi le cure, forse una cura non c'era affatto.

Il canto della civetta. La Signora della Morte (Vol. 1)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora