1. Alaric e le vespedemone

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«Tabita! Devi venire subito!» Sofia spalancò la porta, ovvero un ammasso di rametti tenuti insieme da preziosi fili di demone ragno. Per poco Tabita non cadde dall'amaca. Scattò in piedi, con i nervi a fior di pelle. Per mesi aveva atteso quel momento e ora non era certa di sentirsi pronta, considerando che si stava per addormentare. Ma soprattutto, dove diavolo era il suo pugnale?

«Che succede?»

Sofia l'afferrò per un polso e la trascinò fuori. «Non c'è tempo, corri!»

«Puoi anche anticiparmi qualche cosa!» Tabita le correva dietro mentre l'amica si inoltrava nel bosco. Se Samuel l'avesse saputo, le avrebbe tirato i capelli.

Sofia si bloccò di colpo e Tabita si scontrò con la sua schiena. L'agitazione le aveva fatto perdere il senso dell'orientamento; in quella zona il bosco era così fitto e terrificante che del cielo si vedeva ben poco.

Sofia le indicò un albero, che forse suo nonno un tempo avrebbe saputo riconoscere, ma ormai erano tutti uguali, si erano fatti una corteccia spessa e lei sapeva solo che quasi tutte le resine erano velenose. A diversi metri di altezza c'era un ragazzino di circa dieci anni, con le gambe strette al ramo come una morsa. Si allungava verso qualcosa di grosso, viola e puzzolente.

«Scendi subito, idiota! È un nido di demoni vespa!», sibilò Sofia.

Tabita la pizzicò. «Stupida! Perché ci hai messe in pericolo? Andiamocene.»

«Dobbiamo aiutarlo, è solo un ragazzino... – Sofia protese il collo verso l'alto – non sa che il loro veleno può ammazzare un uomo adulto in tre secondi!»

«Io ho solo nove anni! Me non mi ammazza!»

«Idiota! Ti ucciderà in molto meno!»

«E io che ci posso fare?», sussurrò Tabita, che avrebbe voluto davvero prendere Sofia a schiaffi.

«Sei tu l'oratrice del gruppo. Digli qualcosa.»

Tabita strabuzzò gli occhi. Infilò le mani nei riccioli; le dava l'impressione di poter placare le eruzioni di rabbia. Era un trucchetto che le aveva insegnato Daniel.

Fece un respiro profondo e si voltò verso il bambino, che teneva in mano un pugnale e ne avvicinava pericolosamente la punta a un alveolo del nido, che era uno dei più grandi che Tabita avesse mai visto. Le venne il dubbio che potesse essere in realtà un bozzolo, con dentro qualche preda putrida. In effetti, nell'aria c'era un odore vomitevole. Daniel però diceva che era il vento: portava la puzza che si sollevava dai sotterranei di Vecchia Spina.

Sofia le scrollò una spalla. «Muoviti! Se le sveglia se lo mangeranno vivo!»

Tabita roteò gli occhi e piantò una mano nel fianco. «Ehi tu, perché stai rischiando la tua vita così?»

«Mi serve il veleno... In laboratorio lo abbiamo finito. Mancano gli antidoti...», mormorò lui di rimando.

Quel bambino poteva essere tutto, fuorché un figlio di cacciatori di demoni! Tutti sapevano che era altamente sconsigliato urlare nei pressi di un nido – un qualsiasi nido di demone. Le vespe, in particolare, erano capaci di far sanguinare le orecchie con il loro ronzare, se si sentivano attaccate – così il nonno di Daniel e Sofia era diventato sordo.

Tabita pensò a qualcosa per distrarre quell'incosciente. Sua madre le aveva raccontato che il mondo è pieno di persone velenose e disturbanti, che sanno danneggiarti con le loro chiacchiere: ecco perché il mondo è pieno di demoni vespa... ma non le parve una notizia avvincente.

«Vivi a Vecchia Spina?», domandò Sofia.

Lui fece un verso, che entrambe interpretarono come un sì piuttosto fiero.

Il canto della civetta. La Signora della Morte (Vol. 1)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora