29. Spaccaossa e la Città degli Artigiani

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Un paio di occhi verdi ruotava attorno a Tabita, nel buio più assoluto. Ne udiva la risata, rauca e poderosa; ne percepiva il calore. Era Donna Salamandra, anche se non riusciva a vederla. Poi il buio assunse le sembianze di un uomo gigante, ombroso, con una lunga barba, e lì in mezzo c'era un occhio di corvo che la fissava. All'improvviso il corvo uscì dalla barba e le volò addosso gracchiando: il becco aveva puntato al suo occhio destro.

Tabita si svegliò di soprassalto.

«Scusa» disse Samuel, sorpreso. Posava una mano sulla sua spalla. Sorrise e le indicò il cielo. Per un momento, Tabita pensò che sopra le loro teste stesse volando un corvo, invece era Diana. Si alzò, colta dall'emozione: «Sei tornata!»

La civetta planò sulla spalla di Samuel e le rivolse un'occhiata ferma; inclinò la testa, pareva curiosa, poi scrollò le ali in modo buffo. Tabita rise. Almeno prima di posare lo sguardo su Zifa, che aveva messo il broncio e fingeva di dormire a poppa.

Tabita ghignò. Dimenticò in fretta il malumore, perché interpretò il ritorno di Diana come un ottimo presagio, e coglieva ora l'occasione di infastidire Zifa.

Erano in viaggio da mezza giornata, e per tutto il tempo il mercenario non aveva fatto altro che assillarli con le sue storie da nomade. Quanto sono forte. Quanto sono furbo. Quanto sono resistente. Aveva parlato, mangiato, ruttato, svuotato la vescica; li aveva storditi con la lista di tutti i demoni che aveva ammazzato. Samuel, almeno, aveva un'occupazione. Seduto a prua con le gambe e le braccia incrociate, proprio come un degno discepolo di Mastro Kumara, sospingeva dolcemente la barca, e solo un paio di volte aveva causato qualche brusca oscillazione per scacciare dei demoni subacquei. Tabita invece aveva solo i propri terribili pensieri per distrarsi, o il paesaggio, che non era di certo dei migliori. Una volta, forse, lo era stato... meraviglioso. La scogliera doveva essere stata di un bel verde squillante, florida, lucida d'acqua e sole; se Tabita pensava a come potesse apparire una città portuale prima dell'Apocalisse, immaginava imponenti costruzioni affacciate sul mare, infilate nella roccia come le tesserine di un puzzle, una bellissima cartolina, come quella che sua nonna aveva custodito per dieci lustri nel cassetto del comodino. Nemmeno lei ci aveva mai vissuto in quella città sbiadita, ma l'aveva fissata così a lungo che le si era impressa nella mente e la fantasia si era confusa con la realtà.

In ogni caso, ora non restavano che macerie e scogliere corrose, appuntite come il dorso di un riccio, come se una strana vibrazione esplosiva le avesse frantumate. A Città degli Alchimisti Tabita aveva visto una cosa simile: una donna faceva suonare uno strumento argentato, a forma di piatto, e la sabbia sopra di esso vibrava e si disponeva in modo da formare disegni geometrici spettacolari. Lì, era successa la stessa cosa, ma il disegno che la distruzione aveva causato non era geometrico, né armonioso; suscitava solo ansia e inquietudine. La terra e la vegetazione, in quel tratto di scogliera, si erano seccate. Tabita fu grata di trovarsi nella barca.

Diede le spalle a quella vista mortificante e prese di mira Zifa.

«Hai perso la lingua?»

L'uomo la ignorò, accavallò le gambe e mise meglio le braccia dietro la testa - che per la cronaca, sostava sullo zaino di Tabita.

«Hai chiamato mio fratello Portatore della Fiamma. Che diamine vuol dire?»

Si udì un risucchio uscire dalle labbra di Samuel.

«Perché non lo chiedi direttamente a lui?» la stuzzicò Zita, dal quale si era aspettata una reazione ben diversa.

Tabita voltò gli occhi al cielo. «Sam, cosa vuol dire?»

«Niente.»

«Ecco. Vuoi farmi questa gentilezza?» chiese, rivolta a Zifa. Lui sghignazzò e sollevò la schiena.

Il canto della civetta. La Signora della Morte (Vol. 1)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora