24. Ali e il bunker segreto

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­­La prima notte dormirono all'aperto, usando gli zaini come cuscini; trovarono una conca nel terreno e la sabbia si rivelò essere una buona coperta. Samuel aveva acceso un fuoco per tenere alla larga i demoni mentre Tabita aveva fatto scorte d'acqua dolce. Giunsero al calar del sole così stanchi che finirono di mangiare quel poco che avevano rubato da Città degli Alchimisti senza scambiarsi una sola parola. Non erano più riusciti a trovare Gita, e Samuel era molto arrabbiato; inoltre l'indomani avrebbe dovuto alzarsi presto. Tabita era scettica riguardo al lavoro che aveva trova suo fratello, era convinta che si trattasse di una mansione troppo pericolosa anche per un ragazzo con dei superpoteri, ma allo stesso tempo era consapevole che al momento non avevano molta scelta; sarebbe stato sciocco da parte loro rifiutare un'occasione del genere: quando mai era il lavoro che ti veniva a cercare?

Tabita si addormentò tutto sommato serena. Di notte Linguaverde si illuminava ancor più del giorno. Ogni tenda accendeva due o tre lanterne; in base al combustibile che usavano i colori viravano dal blu al verde. Nel perimetro del mercato, un enorme cerchio che Tabita osservava come una stella nel cielo, i capi di ogni gilda infuocavano degli alti pali rivestiti di quella resina appiccicosa che li faceva bruciare come torce per tutta la notte.

Ricordava i palazzi grigi della Periferia Sud. I lampioni rotti, gli sguardi loschi appostati in ogni vicolo. Persino alla luce del sole la città era buia, affogata nel fumo e nella foschia. Linguaverde le piaceva molto di più. Da laggiù riusciva a vedere il profilo illuminato delle tende e le sembrava un'arma incandescente da brandire al momento del bisogno.

Al suo risveglio Samuel era già partito e sarebbe tornato solo nel primo pomeriggio, quando il caldo si faceva più feroce. La giornata di Tabita iniziò con una smorfia: in fila alle docce c'erano quindici persone prima di lei e trascorse almeno un'ora prima che fosse il suo turno. Lasciò le sue cinque conchiglie, che aveva raccolto appena sveglia, nel palmo di una vecchia signora seduta su una sedia di metallo legata a un palo con un catenaccio. Lei controllava, con quegli occhi nascosti dalle palpebre cascanti, e annuiva bonariamente. Poi si accedeva a una piccola struttura rialzata coperta da una robusta tenda rettangolare, e si sceglieva una delle tre docce: tre paraventi, ben poco inefficaci dato che si affidavano solo sul buon senso degli avventori. Per non parlare del terreno attorno alla struttura, una specie di fanghiglia mortale. Tre doccioni sgangherati sputavano fuori acqua gelida e talvolta insabbiata, le cadde in testa più di un sassolino; ma il sollievo che provò quando riuscì grattarsi via il sale dalla pelle la ripagò di tutta la frustrazione. Fu invece il doversi infilare di nuovo i suoi vestiti sporchi che la convinse a sacrificare la ricerca della colazione e a compiere la mossa successiva.

Ci mise più tempo del previsto a trovare la tenda di Ali, soprattutto perché di lui non c'era traccia. La scovò grazie all'impacciata indicazione di un ragazzetto malconcio e spelacchiato. Dietro al tavolo dei vestiti c'erano due donne, di bell'aspetto, con i capelli inghirlandati di curiosi gioielli, forse fiori fossilizzati nella resina, e Tabita ricordò la storia delle "sorelle" adottive di Ali. Attese a distanza di vedere qualcuno comprare, per capire cosa potessero chiedere in cambio di una maglietta nuova, e magari di un paio di pantaloni, ma non comprò nessuno. La loro tenda era schiacciata in mezzo ad altre due; una vendeva carne appesa a un'asta di ferro, o stipata dentro delle piccole gabbie aperte – era ruggine o sangue incrostato? – l'altra degli intrugli medici puzzolenti. Aveva la forma di una bizzarra pietra della montagna, non seguiva alcuna geometria, il telo di un blu seccato dalle intemperie si deformava in più punti come se avesse sopportato l'attacco di una catapulta, e spiccava in mezzo alle altre due, che erano invece lisce e dunque sepolte dalla sabbia trasportata dai venti.

«Ehi, straniera. Lo sapevo che saresti tornata.»

Tabita sobbalzò. Le era comparso alle spalle, con un cesto pieno delle merci appena giunte nel Porto. Avrebbe voluto insultarlo per averla spaventata, ma tenne a mente lo Scopo. «Ehi, ciao. Mi dispiace per ieri. Ero appena arrivata in città ed ero molto nervosa. Da dove vengo io... la gente cerca sempre di fregarti.»

Il canto della civetta. La Signora della Morte (Vol. 1)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora