20. Addio e bentornata

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«Mettila giù, immediatamente.»

Zifa valutò la situazione per qualche istante senza muovere un muscolo. A un certo punto si rilassò, come se Tabita per lui non rappresentasse alcun pericolo.

Oh, quanto si sbaglia, pensò lei. La rabbia si era impossessata dei suoi arti, avrebbe tranciato perfettamente a metà qualsiasi cosa si fosse scontrata con le lame dei suoi kartika.

«Stai buona, non voglio farti del male. Lo sai che sulla testa di questa ragazza pende la ricompensa di un Erede? La sto portando alla Capitale, dove la vizieranno come un maialino e le appenderanno al collo una lustra medaglietta. Che te ne pare?»

«Lei è mia amica, e non ci vuole andare nella Capitale. Lasciala subito.»

«Ci posso portare anche te, se vuoi. So contrattare molto bene.»

Zifa ridacchiò, ma non staccava mai gli occhi da quelli di Tabita, e dovette avere l'impressione di trovarsi di fronte a un animale selvatico tenuto in catene per troppo tempo, perché lentamente decise di adagiare il corpo di Sofia vicino al passaggio. «Sta' tranquilla, le ho dato solo un sonnifero molto potente. Dormirà per tre, quattro ore.»

«Chi ti ha detto di lei?»

«Uhm...» si grattò la barba, poi rise. «Ti hanno mai spiegato cos'è una spia?»

Tabita fu stordita da un flash: Tara che cercava di trattenerla nella Biblioteca. Si lanciò in avanti con il braccio sollevato: Zifa la scansò prontamente, sorpreso da quell'attacco repentino. Sfoderò a sua volta una corta spada e Tabita, per una frazione di secondo, sovrappose alla spada levata contro il soffitto una lunga chela di demonescorpione. Si immobilizzò. Non doveva toccare i fili. Non doveva agire d'impulso. Restò ferma, come un serpente pronto a sfidare la velocità della luce.

Zifa le camminò attorno. «E così sei Maria, la lavapiatti di Città degli Alchimisti?» La punzecchiò sornione.

«Il mio nome è Tabita, e sono una... una viaggiatrice. Allontanati.»

Zifa, di rimando, si avvicinò a Sofia di un passo. «Sai, Durga pensa che sia destino che lei ti addestri. Forse allora è destino anche che tu venga con me, là fuori, nel mondo vero.»

«Durga non sarebbe felice di sapere quello che stai facendo.»

Zifa rise. «Durga ha passato molto più tempo con i demoni che con gli esseri umani. Le sue emozioni sono... come dire, assopite. Pensaci, bambina! Potremmo combattere insieme. Vedo un fuoco nei tuoi occhi. Ti posso addestrare come si deve. I mercenari nomadi sono degli eroi: nell'ombra e nel silenzio ripuliscono il mondo. In cambio di un piccolo prezzo, se proprio non possiamo avere la fama! Sia mai che l'Esercito sprechi i suoi uomini migliori in missioni davvero eroiche. Sai cosa definisce un eroe, cara bambina? Il sacrificio.» Zifa parlava con passione, gli occhi spalancati e le labbra umide. «Vieni con me.»

Di fronte a Tabita si dispiegò una prospettiva del tutto nuova. Una miriade di possibilità allettanti, l'occasione di essere addestrata a cacciare, cacciare per davvero. Aveva bisogno di pensare, di temporeggiare. Zifa poteva essere la soluzione per attraversare il deserto integra. Ma lei non aveva preparato niente, né armi né provviste, e dubitava che un uomo come lui l'avrebbe aspettata. Il pensiero giusto, l'unico che contava davvero, arrivò troppo tardi: cosa ci guadagna Zifa a portarmi con sé?

Niente.

Tabita non si era nemmeno resa conto di essersi allontanata così tanto con la mente, ci aveva pensato per forse dieci o quindici secondi, e lo scoprì quando una puntura profonda le infastidì il collo; alzò lo sguardo e vide prima Zifa con una cannuccia in bocca, poi, un po' più in giù che fuoriusciva dal suo collo, la coda di un ago sottile come un capello. Se lo tolse e lo studiò con un misto di meraviglia e orrore, mentre iniziava a barcollare. Non riusciva più a parlare, e cadde di fianco. Zifa le stava dicendo qualcosa ma lei non udiva più nulla, le immagini si sfocarono. Presto arrivò anche la quiete, una dolce sonnolenza che le tolse i pugnali di mano. Tabita girò la testa in modo da poter guardare Zifa riporre la cannuccia nel tascone dei pantaloni e chinarsi su Sofia. Dio, se avesse potuto urlare a squarciagola qualcuno l'avrebbe sicuramente udita, e invece era costretta a una docile sorveglianza; il mondo avrebbe potuto bruciare che lei non avrebbe avuto nemmeno la forza di piangere.

Il canto della civetta. La Signora della Morte (Vol. 1)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora