30. Maurine e i quattro generali

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Con le prime luci dell'alba Città di Ossa si mostrò in tutta la sua straordinarietà e cupezza. Innanzitutto, non c'erano tende, ma vere e proprie case con il tetto piatto, perlopiù di una o due stanze, ed erano fatte tutte con lo stesso materiale: ossa. Levigate o grezze, polverizzate e usate come calce, ammucchiate e legate assieme con dei lacci, sorrette da strutture di legno, oppure usate come mattoncini. Tabita non chiese mai come si procurassero la grande fonte di quell'opera umana; guardava i volti delle persone e non li riteneva minacciosi. C'erano molti uomini e poche donne. Non vide armi, tenute da combattimento o grossi stivali da viaggio, qualcuno camminava persino scalzo. I bambini, curiosi e ridenti, li seguivano di nascosto; era la slitta ad attirarli, e quell'enorme cassa che brillava come uno scrigno del tesoro.

La ragazza che li guidava si presentò. Indossava un vestito d'altri tempi, grigio, e teneva la schiena così dritta che Tabita s'infastidiva al solo guardarla.

«Mi chiamo Maurine, sorella del generale Rafael.»

«John.»

«Maria.»

«Da dove venite?»

Samuel l'affiancò, forse per metterla a suo agio. Maurine appariva nervosa, stringeva le dita in grembo, e si capiva che li stava interrogando al posto del fratello.

«Periferia Nord» rispose Samuel.

«Oh, che lungo viaggio. E dove siete diretti?»

Tabita si allarmò, ma suo fratello esordì in un'insospettata spigliatezza. «Siamo stati invitati nella Capitale.» Maurine lo guardò con stupore. «Eh, già! I nostri genitori sono dei cacciatori. Andiamo a trovarli.»

La ragazza si rilassò. Città di Ossa vantava un buon rapporto con la Capitale e con l'Arma. Forniva armi e oggetti d'arredamento interessanti, fatti con i corpi dei loro nemici, umani e non, e l'unico motivo per cui si trovavano ancora fuori dalle mura era niente di meno che le ossa. Atena, quella terra arida che giorno dopo giorno si piegava alle affluenze demoniache, penava di flora e fauna, di cibo, di acqua potabile... ma non di certo di ossa. Lì fuori ne avevano a volontà.

Maurine li condusse in una zona isolata dove si ergeva una struttura simile alle altre, grigia, con il tetto basso, la differenziavano solo le due torrette di guardia ai lati. Il sentiero sassoso era puntellato di statue di animali di piccola taglia e all'ingresso li accolse un maestoso esemplare di corna di cervo, appese sopra le loro teste.

«Venite.» Maurine li fece entrare ed accese il fuoco, nel cuore dell'atrio spazioso. Il pavimento era di legno, le mura levigate. C'erano tre stanze; una cucina, una camera da letto - una stanza vuota ma dotata di un letto vero, con il materasso - e il bagno, dove c'era una tinozza per lavarsi, un vaso e uno specchietto. Il tutto avrebbe potuto essere accogliente, se non fosse stato per i teschi. Di uccellino, di scoiattoli, di lepre, di corvo, cascavano dalle assi del soffitto, dalle tendine rosse delle finestre, dalla catasta di legna nell'angolo; Tabita li aveva già notati, appesi un po' ovunque nelle porte e nelle finestre delle case.

«Nella dispensa c'è del cibo. Prendetene a vostro piacimento. Abbiamo una fontana, fuori. Oh - Maurine, scostando spesso la gonna, zampettava da una parte all'altra - in questa cassapanca ci sono delle coperte. Abbiamo anche piatti, e bicchieri. C'è tutto ciò di cui avete bisogno, qui accogliamo i visitatori prima che vengano ricevuti. Non vi... consiglio di uscire prima di parlare con gli altri generali.»

Per qualche incomprensibile motivo, Samuel sorrise. ­«Non lo faremo. Grazie.»

Maurine rimase muta, poi distolse lo sguardo. «Verrò a prendervi... a mezzogiorno, che ne dite?»

Il canto della civetta. La Signora della Morte (Vol. 1)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora