26. Quel che resta dell'umanità / Parte I

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Tabita pensò a mille modi diversi per vendicarsi di Ali in quell'esatto istante, sfoderando i kartika. Respirò pesantemente, come un toro imbufalito, poi si udì uno scoppio di risa e tra quelle c'era anche la voce ubriaca di suo fratello. Sollevò il mento e diede le spalle ad Ali.

«Possiamo trovare un accordo, non voglio farti del male» disse lui, e la raggiunse per fermarla, ma Tabita gli puntò una lama alla gola.

«Io invece sì.»

Ali scosse la testa, tuttavia non si fidò a scostare il pugnale e alzò le mani. «Per favore... divideremo il premio.»

Tabita gli rivolse un sorriso amaro. «Se potessi mi riprenderei anche tutto ciò che ti ho già dato.»

Mentre si allontanava da lui, valutò di minacciarlo e di farsi dire tutto ciò che quel verme sapeva sulle prove del torneo, ma si sentiva così ferita e arrabbiata... e quel che era peggio, la voglia di piangere superava di gran lunga quella di vendicarsi, perciò non avrebbe rischiato per nulla al mondo di mostrarsi in lacrime di fronte a lui. La gara sarebbe iniziata al rintocco della seconda campana e ora doveva solo pensare a risposarsi. Valutò anche di mandare Samuel al diavolo, ma se fosse morto quella notte allora nemmeno il torneo avrebbe avuto più senso.

Lo raggiunse a un tavolo per metà affondato nella sabbia, dove lui e altri tre uomini giocavano con delle carte consunte. Il flusso del mare contro gli scogli lontani li rabboniva al pari della birra. Erano accaldati, ubriachi marci, puzzolenti e maledettamente rumorosi.

«Sam, andiamocene.»

Lui non la sentì, impegnato com'era a nascondere le carte ai suoi compagni, che ora litigavano per decidere a chi spettasse il turno. La lanterna in centro tavolo non cadde per miracolo.

«Samuel!»

«Oh, Tab... non ora.»

Tabita sgranò gli occhi e gonfiò il petto. Teneva ancora stretti i pugnali; ne conficcò uno vicino alla sua mano. «Ho detto andiamo, ora.»

Calò il silenzio. Per un momento gli uomini la guardarono con la stessa riverenza con cui guardavano Gita, poi scoppiarono a ridere e spintonarono Samuel come se fosse un bimbo di cinque che anni che dovesse seguire la mamma. Dopo un attimo in cui il vento si agitò attorno a loro, la sbornia parve dissiparsi dal viso di Samuel, che vide davvero sua sorella e capì che doveva essere successo qualcosa.

Lei non lo aspettò e si incamminò verso il container. Ci mise così tanto suo fratello a raggiungerla, dato che ora il dolore alla gamba gli risultava quasi insopportabile, e forse aveva perso pure il bastone, che ebbe tutto il tempo di riempire una borraccia alla fontana e di infilarci dentro un po' dell'intruglio soporifero che era riuscita a reperire in quei giorni. Appena Samuel entrò, gliela schiaffò in petto. «Bevi, idiota. Sei ubriaco da far schifo. E dimmi cosa vuole Gita, prima di addormentarti.»

Samuel ridacchiò, bevve un lungo sorso e inciampò sulla sua brandina, rovesciandosi il resto addosso. Tabita sperò che bastasse.

«Io non mi addormenterò, non ci sperare.» Provò a togliersi gli scarponi un paio di volte, ma infine rinunciò. Cadde a peso morto e incrociò le braccia dietro la testa; Tabita gli diede un pizzicotto.

«Ahi! Si può sapere che cos'è successo?»

«Dimmi cosa hai scoperto o ti soffoco con lo zaino.»

«Oh... ti ha spezzato il cuore, non è vero? Ho visto Ali.»

Tabita fece per afferrare lo zaino e Samuel si rese conto di essere troppo intontito per difendersi. «Ok, ok...» Si stese, di nuovo tranquillo. «Gita vuole un rubino.»

Il canto della civetta. La Signora della Morte (Vol. 1)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora