18. Zifa l'Esploratore

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Tabita sfregava con energia il fondo della padella, chinata sopra la tinozza, sicura che quel lavoretto le avrebbe garantito una porzione di dolce extra. Sapeva di essere ben voluta nelle cucine di Città degli Alchimisti, e questo perché Nitocris l'aveva abbandonata a sé stessa e lei aveva dovuto imparare a prendersi cura non solo di sé ma anche di suo fratello, che di certo era diventato un ragazzo a modo, ma non abbastanza da lavarsi i piatti da solo dopo i pasti; così come Sofia, e pure Daniel. Solo Tara si offriva ogni tanto di darle una mano, ma piuttosto di trascorrere del tempo con lei, Tabita si sarebbe tagliata un dito – oppure l'avrebbe tagliato a lei.

Aveva appena disintegrato l'ultima spugnetta di metallo, quando Manu zoppicò verso di lei, con le sue spalle curve e il vestitino azzurro macchiato di sugo, e le passò un piatto con una bistecca affogata nel sugo.

«Ti andrebbe di portarla fuori, cara? È rimasto solo lui al tavolo.»

«Pensavo che qui non si mangiasse carne.»

L'anziana fece spallucce. «Che ognuno mangi quel che vuole, io no di certo. Ogni tanto qualche viaggiatore offre le sue provviste... deve averla cacciata durante il viaggio, povera bestiola. Cinghiale, forse. Allora, potresti occupartene tu?»

«Va bene...»

«Meno male.» Manu strizzò gli occhi turchesi e le rughe le sfiorarono le orecchie.

«Da quando facciamo servizio ai tavoli?»

L'anziana la rimproverò con lo sguardo. «Così come noi abbiamo servito te quando sei arrivata, tu servirai lui.» Le strizzò la guancia. «Fai un favore a questa vecchia. Io e i cacciatori non andiamo molto d'accordo.» S'incassò nelle spalle e le punte dei capelli bianchi si rintanarono nelle pieghe del collo. Tabita sobbalzò. «Un cacciatore, qui?»

Manu annuì, diffidente. «È arrivato ieri notte, ma è uscito dalla sua stanza solo oggi, per la cena. Un tipo molto riservato... molto stanco...» se ne andò borbottando tra sé e sé; spesso dimenticava di salutare, o di stare parlando con qualcuno, ma si faceva voler bene in altro modo.

Tabita si sforzò di pensare per almeno tre minuti, ma nel frattempo già cercava freneticamente qualcosa con cui nascondere i capelli. Afferrò tre strofinacci, li legò insieme e li usò come velo, saldandoli con un nodo sotto il mento. Prese un respiro profondo e si affacciò nella sala da pranzo. A quell'ora ormai se n'erano andati quasi tutti e le candele si erano ridotte a non avere più cera da consumare. La stanza era illuminata dai tenui bagliori verdastri delle lanterne. Man mano che Tabita si avvicinava al cacciatore, le si rammollirono le gambe, e questo non se l'era aspettato. Le era parso così chiaro quel che avrebbe dovuto chiedere, fino a un attimo prima di dirigersi verso di lui, eppure ora, ferma di fronte al suo tavolo, non riuscì a piazzare una sola parola. Allungò freddamente il braccio con il piatto e restò lì, ferma.

Il suo aspetto la colpì profondamente. Tatuaggi rossi, o forse cicatrici, rivestivano le braccia di bronzo, come se un serpente delle grotte lo avesse stritolato per bene durante il sonno. Gilet e pantaloni gli posavano sul corpo di roccia come brandelli residui di una battaglia; doveva aver compiuto un viaggio lungo e faticoso. I capelli bianchi e crespi, in netto contrasto con il bruno della pelle, attenuavano la spigolosità di un viso provato dalle fatiche, per non parlare degli occhi, che restavano stretti a fessura e dentro pareva che ci fosse del vetro.

L'uomo si tirò sulle spalle un mantello e prese il piatto. Invece di usare le posate, afferrò la carne con entrambe le mani e l'avvicinò alla bocca; poi si arrestò per qualche secondo. «Hai fame, mocciosa?»

Tabita avvampò. «No! Qui ce n'è per tutti.»

«Ah.»

«Aspettavo un ringraziamento! Quelle sono le cucine, la prossima volta ti devi arrangiare.»

Il canto della civetta. La Signora della Morte (Vol. 1)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora