Appuntai sul primo pezzo di carta che mi ritrovai davanti (uno scontrino di un negozio di abbigliamento) l'indirizzo dell'ospedale, infilai la giacca in fretta e furia e presi la borsa al volo, senza neanche controllare se dentro avessi tutto quello che poteva servirmi. Il modo più veloce per arrivare a Liverpool era un'aereo, perciò guidai come una pazza fino ad Heathrow e feci in modo che mi mettessero sul primo volo per Liverpool.
Henry ha avuto un'incidente.
Henry ha avuto un'incidente.
Era notte fonda e Henry aveva avuto un incidente.
Avevo fatto male a non farmi dire le sue condizioni, a chiudere la chiamata in fretta, ma volevo arrivare a Liverpool il prima possibile e ogni secondo mi sembrava fatale.
Sentivo gli occhi che mi bruciavano, ma non potevo crollare, non potevo, per cui tenni duro finché i miei piedi non toccarono il terreno della città natale di mia madre.
Mi muovevo meccanicamente, non potevo pensare, non potevo....
Rubai il taxi ad una giovane coppia appena sposata e non mi sentii in colpa neanche per un momento, non ne avevo il tempo.
Qual è stata l'ultima cosa che gli avevo detto? Dovevo farmi dire le sue condizioni, dovevo farmele dire... E invece avevo agito impulsivamente e stupidamente, e ora mi stavo mangiando la testa su come potesse stare.
Non riuscivo più a respirare, sentivo un groppo alla gola e un peso al petto e... Dio, perché mi sembrava che il cuore avesse smesso di battermi?
Dovetti fare profondi respiri con la bocca aperta per calmarmi, perché non potevo crollare sul sedile di un taxi quando Henry aveva avuto un'incidente e poteva essere in gravi condizioni.
Erano mesi e mesi che non era più nella mia vita, ma il semplice pensiero che fossimo presenti contemporaneamente nella stessa era, nello stesso mondo... Mi aveva sempre calmata.
Lo stavo realizzando solo in quel momento, solo quando c'era la possibilità di perderlo.
"Si può muovere?" domandai bruscamente all'autista, che andava lentissimo in una strada senza nemmeno un'auto.
"Me la paga lei la multa, poi?"
Avrei dovuto scusarmi, ma non lo feci, non riuscivo a dire "Scusa" senza pensare di rivolgermi a Henry.
E non sapevo se avevo davvero qualcosa di cui scusarmi con lui, ma volevo solo prenderlo tra le mie braccia e dirgli "Scusa, scusa, scusa" una decina, una centina di volte finché non avessi messo a posto tutto.
Il taxi si fermò, pagai al volo e uscii dal veicolo, avvolta dalla notte.
L'entrata dell'ospedale mi sembrava l'entrata dell'inferno, l'entrata di un posto buio e triste e nefasto e portatore di tutte le cose negative di questo mondo, perché Henry era lì dentro, Henry aveva avuto un'incidente e io ci avevo messo due ore per arrivare, due ore in cui a Henry poteva essere successo di tutto, poteva aver provato di...
"Dov'è Henry Cooper?" non avevo registrato me stessa che entrava nell'edificio, non riuscii a rendermi conto di dove mi trovassi, se in una hall, in un corridoio o in una stanza, parlai al primo dottore che vidi, benché fosse stata una dottoressa a chiamarmi.
"Mi scusi?" ripeté lui e io provai tutta la frustrazione possibile di questo mondo, perché questo medico mi stava tenendo lontana da Henry, dall'uomo che...
"Dove si trova Henry Cooper" ripetei dopo aver represso il desiderio di spingerlo a terra.
"È uno di quelli che si trovava sul treno?"
La mia espressione doveva aver spaventato il medico, che indietreggiò di un passo "Lui non è uno di quelli!" non ero in me, ma ero spaventata e triste e disperata "Ha un nome, ed è Henry James Cooper" avevo scoperto del suo secondo nome durante il nostro secondo anno insieme, ma non lo avevo mai detto ad alta voce "Mi dica immediatamente dov'è o butto giù l'intero edificio!" dovevo aver urlato l'ultima parte, perché decine di teste si girarono a guardarmi.
Una mano mi toccò la spalla e io mi voltai di scatto, trovandomi di fronte un Dylan con gli occhi gonfi "Evelyn"
"Dylan" sussurrai, avendo perso improvvisamente tutta la voce "Dov'è?"
"Non è nella sua stanza, non so le condizioni"
"Non te le hanno dette per telefono?"
"Non me le hanno volute dire"
"È grave?" la voce iniziò a tremarmi, tutta l'isterica sicurezza di prima scomparsa.
"Non lo so, ma ci sono parecchi morti"
Le ginocchia mi cedettero e Dylan mi sostenne, mettendomi un braccio attorno alle spalle e conducendomi nel corridoio della sua stanza, la cui porta era aperta e l'interno vuoto.
Chi altro avevano chiamato?
"Io e te siamo i suoi unici contatti d'emergenza" mi rispose Dylan, non mi ero accorta di aver fatto quella domanda ad alta voce "Evelyn, non dobbiamo disperarci Magari sta bene e gli stanno solo facendo delle analisi"
"Voglio vederlo" affermai, mettendomi composta sulla sedia, cercando di avere almeno il controllo sulla mia postura, visto che non riuscivo ad averlo delle mie emozioni.
"Il treno è andato fuori dai binari, schiantandosi contro un edificio" mi disse Dylan, anche se non ero sicura di voler sentire le dinamiche dell'incidente "So che Henry era nel primo vagone che si è schiantato e che-"
"Basta" mormorai, coprendomi il viso con le mani "Basta, non voglio sapere più niente finché non lo vedo. Sarà lui a raccontarlo, sarà lui, sarà lui"
Sentii il rumore di una barella che strisciava sul linoleum, il rumore di passi
Di scatto, alzai la testa proprio mentre vari medici entravano nella stanza assieme a quella barella sulla quale
Fui in piedi prima di aver registrato la scena davanti a me, fui in piedi prima di Dylan e fui nella stanza prima che qualcuno potesse dirmi che non era consentito.
Una dottoressa, quella del telefono, si rivolse a me con voce dolce "Lei è Evelyn Greco, vero?"
Annuii, incapace di fissare altro che Henry steso sulla barella, con gli occhi chiusi e il viso pieno di graffi il cui sangue era stato ripulito. Il camice non lasciava intravedere le condizioni del busto e una coperta gli copriva le gambe, ma aveva le braccia piene di ferite, alcune sembravano tenute chiuse da dei punti.
Ma il petto si muoveva.
Il petto... Si muoveva.
Un'onda di sollievo mi investì così prepotentemente che mi sentii mancare l'aria.
La dottoressa mi stava elencando le varie ferite che aveva riportato, ma le uniche parole che il mio cervello registrò furono "Niente di fatale, si riprenderà in fretta. Domani potrà uscire dopo averlo tenuto sotto osservazione per questa notte"
Percepii la presenza di Dylan al mio fianco che prendeva nota mentalmente delle cose più importanti, fu lui a dirmi che, dopo che i medici se ne furono andati, ora Henry poteva essere stordito perché era sotto effetto di antidolorifici.
A me bastava che respirasse, bastava che stesse bene.
Dylan mi mise una mano sulla spalla, riportandomi alla realtà; improvvisamente sentii di nuovo il ronzio della luce, le ambulanze fuori dall'edificio, l'odore perenne delle medicine dell'ospedale. Percepii tutto di nuovo.
Sembrava di esser tornata a respirare dopo un'apnea durata troppo a lungo.
"Evelyn" sussurrò Dylan, come se fosse timoroso di svegliare Henry "Grazie per essere venuta, per lui significa molto"
Il panico aveva abbattuto ogni abilità di fingere, ora dalla mia bocca poteva uscire solo la verità. Verità fino a quel giorno avevo negato anche a me stessa.
"Mi manca" sussurrai a mia volta "E me ne sono resa conto troppo tardi"
"Non è troppo tardi, Evelyn"
"Sarei venuta comunque, anche se lui mi avesse odiata, sarei venuta comunque" non riuscii a fermare in tempo le lacrime "Ho temuto il peggio, Dylan, se lui fosse"
"Io non vorrei più respirare" confessò, abbattuto.
"Nemmeno io"
Henry si mosse, iniziando a svegliarsi.
"Vuoi rimanere qualche minuto sola con lui?" mi domandò Dylan, ma io mi ero già precipitata al fianco di Henry, seduta sulla sedia accanto al suo letto e protendendomi verso di lui, i nostri visi erano vicinissimi.
Dylan capì la risposta e attese fuori dal corridoio.
Henry era terribilmente pallido, gli passai una mano sulla guancia e trovai la sua pelle freddissima. Al contatto della mia mano col suo viso, i suoi occhi si aprirono di scatto.
Avevo dimenticato quanto fosse bello quel blu del suo sguardo, quanto fosse profondo.
Rimanemmo parecchi secondi a fissarci, io con le lacrime agli occhi e lui con le sopracciglia aggrottate, confuso.
Poi, dopo quelli che parvero anni, udii la sua voce, debole e sottile come un ago, se non fossi stata così vicino, probabilmente non l'avrei sentito.
"Eve" una sola parola, il mio nome, riuscì a farmi crollare di nuovo.
"Sono qui" anche la mia voce era debole e tremante.
"Eve" ripeté, più lucido.
"Ciao" gli dissi mentre gli toglievo delle ciocche nere dalla fronte "Ciao"
Volevo dirgli così tante cose, volevo chiedergli scusa per questi ultimi mesi, volevo portare via quella sofferenza con baci e carezze, volevo perdermi nelle sue braccia, volevo stare assieme a lui, volevo lui.
E volevo dirgli che lo amavo, che non avevo mai smesso, che eravamo stati dei totali idioti a lasciarci andare.
Ma non riuscii a dire niente, perché il cuore mi batteva all'impazzata e il sollievo mi impediva di parlare.
Nonostante fossi in un ambiente non felice, nonostante il panico delle ultime ore, non mi ero mai sentita così in pace come in quel momento. Io e Henry in una stanza da soli, a guardarci come facevamo una volta, come facevamo agli inizi quando non riuscivamo mai a saziarsi della vista l'uno dell'altra.
Henry si mise a sedere di scatto e mi avvolse tra le sue braccia, stava tremando ed io con lui. Non sapevo chi stesse confortando chi, non sapevo di chi fossero le lacrime che sentivo sulle guance, ma sapevo che al mondo non c'era alcun altro posto per me che le sue braccia.
Quelli che pensavo essere singhiozzi si rivelarono essere parole, Henry mi stava ripentendo "Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace"
Ed io ripetevo "Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace".
Ci chiedemmo scusa a vicenda così tante volte che eravamo apposto per una vita intera, forse anche due, ma in quel momento niente sembrava bastare, nessuna parola riusciva a chiedere perdono per tutta la sofferenza che ci eravamo causati a vicenda.
Henry mi prese il viso tra le mani e mi fissò dritto negli occhi, con lucidità nonostante gli antidolorifici "Sei qui"
"Non vorrei essere altrove" mi tremava il labbro, la gola mi bruciava e le lacrime mi offuscavano la vista "Henry..." il suo nome era un conforto "Voglio tornare a casa"
Ma non intendevo Verona, non intendevo Cambridge o Londra.
E lui mi comprese, lui mi comprese
Mi avvolse di nuovo tra le sue braccia.
Ed entrambi, con l'alba di un nuovo giorno che ci illuminava, tornammo a casa.
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Le sfumate dell'alba
RomanceSEQUEL DE "Le sfumature della notte" • • Sono passati sette anni dal momento in cui Evelyn ha messo piede in Inghilterra, facendone la propria casa. Ora lei e le sue amiche hanno un lavoro di cui sono soddisfatte, le loro vite non potrebbero andare...