13.

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Quando mia mamma mi aveva comunicato che sarei dovuto passare dal negozio per ritirare uno degli acquisti di Silvia per poi portarlo a casa sua, ero rimasto di stucco.
"È stata un'idea di Adri, non credevo fosse un problema".
Non volevo rivedere Silvia, non così presto, ma capii che fare resistenza avrebbe palesato i miei sentimenti, quindi mostrai la mia disponibilità senza fare storie. Avrei ucciso Adriana più tardi, poco ma sicuro.
Arrivato al negozio caricai lo scatolone nel portabagagli; non avevo idea di cose fosse contenuto all'interno, dal disegno sembrava una strana astronave o qualcosa del genere. Parcheggiai davanti casa di Silvia, che si era stabilmente trasferita nell'appartamento che era stato dello zio. Ci avevo messo piede per la prima volta più di un anno prima, durante la ristrutturazione. Aveva sempre avuto il desiderio di trasferirsi in quella casa che definiva 'troppo grande per una persona sola', e adesso che ci viveva con mia figlia ripensare a quelle parole mi fece sorridere. Era un appartamento come tanti altri, col pavimento in legno e due grandi camere da letto. Il punto di forza, però, era il tramonto di cui si godeva dal grande salotto. Silvia me ne aveva parlato così tanto che alla fine le avevo chiesto di farmi vedere questo fantomatico tramonto, e potei constatare con i miei occhi che aveva ragione. Quel pomeriggio di giugno dell'anno precedente, dopo aver fatto aperitivo in terrazza, facemmo l'amore per ore in quella casa semivuota occupata dagli attrezzi degli operai. Mentre uscivo dalla macchina ripensai a quei momenti e sorrisi all'idea di quanto tutto adesso fosse decisamente diverso.
Presi lo scatolone e pregai che entrasse nell'ascensore; arrivato al quarto piano suonai e la mia ex fidanzata mi aprì. Era sorpresa, come se non si aspettasse davvero di vedermi lì. Poi notò il sudore sulla mia fronte e rise leggermente.
"Io ti faccio un favore e ti prendi gioco di me? Non sei cambiata molto"
"Non la fare così tragica Chiesa, entra dai"
Ognuno a suo modo, stavamo entrambi cercando di rendere la situazione il meno strana possibile: lei chiamandomi per cognome, come all'inizio della nostra frequentazione, quasi a ribadire che la confidenza che avevamo non esisteva più. Io cercando di non pensare a quel maledetto pomeriggio passato in quella casa, il cui ricordo mi era entrato nel cervello e sembrava non avesse la minima intenzione di andarsene.
Per la prima volta dopo un anno eravamo insieme, da soli, per di più con una figlia che stava dormendo nell'altra stanza. Le domande e i dubbi aleggiavano nell'aria: riuscivo a percepire il disagio di Silvia, e sono certo che anche lei avesse intuito il mio senso di inadeguatezza. Non riuscivo a dire nulla, a mala pena riuscivo a guardarla, eppure mille interrogativi si facevano spazio nella mia mente.
L'aria si fece pesante, come se i mesi di silenzi e non detti fossero con noi in quella casa, occupando a poco a poco tutto lo spazio disponibile. Ci limitammo a montare quel marchingegno strano e un attimo prima che fosse pronto sentii piangere dall'altra stanza. Silvia corse da nostra figlia e tornò in salotto con Vittoria attaccata al seno. Rimasi imbambolato alla vista della mia ex fidanzata: non la vedevo nuda da molto tempo ma, nonostante il debole tentativo di togliermela dalla testa, ricordavo perfettamente ogni particolare del suo corpo. Una donna che allatta la figlia, niente di più naturale: eppure vederla semi svestita, a un metro da me, scatenò qualcosa nelle mie viscere. E lei, ovviamente, se ne rese conto; avrei sempre riconosciuto quello sguardo malizioso che mi aveva fatto più volte perdere il fiato. Mentre la guardavo nutrire Vittoria, riuscivo solo a pensare a quanto fosse bella e sensuale nonostante la situazione fosse tutt'altro che eccitante.
Silvia poggiò la bimba nell'astronave, che si rivelò essere una sorta di dondolo, e sorprendentemente mi rivolse una domanda che di certo non mi aspettavo.
"Ti ringrazio per l'aiuto Chiesa, rimani a cena con noi?"

VITTORIA - Federico ChiesaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora