4. "Scheletri"

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"Insomma, che posto era, quello?"

"Lei ha perso il diritto di fare domande nel momento in cui si è finta ciò che non è, signorina-col-cane."

"Andiamo, signor Dolbruk, sono una giornalista, mistifico per mestiere e devo – devo – essere invadente, altrimenti non lavoro. Se non lo capisce lei..."

"Che significa se non lo capisco io?"

"Lei che campa sulla sua immagine, andiamo!"

"Oh, per la miseria, che brutta idea si è fatta di me!"

"Allora la smentisca, sono tutta orecchi, ho un sacco di cose da chiederle. Non abbia timore, persino la sua guardia del corpo mi considera inoffensiva!"

In effetti Adrian si era mostrato stranamente accondiscendente: le aveva pure permesso di salire in macchina ed ora lei, dal sedile di dietro, lo stava tormentando con quell'interrogatorio snervante. Snervante perché era risentito. Con Karìma Mirèl. Con Adrian. Ma anche con se stesso, senza capire bene il perché.

"Non ho timore. Non di lei, mi creda."

"E di cosa ne ha?"

Noam sospirò. Quella che avrebbe dovuto essere una serata di gioia era diventata l'ennesimo gioco delle parti: lui bloccato nel suo ruolo, e quei due... quei due, beh, due personaggi di passaggio, che non avevano davvero interesse a conoscerlo.

Meglio, pensò in quel momento. Tutto sommato meglio così.

Non aveva mai raccontato a nessuno dei suoi rapporti con la Casa Stellata. Forse era una stupidaggine, eppure avrebbe preferito se quello fosse rimasto un luogo solo suo. Non ne aveva parlato neppure agli amici... Ma poi, poteva dire di avere amici? Conosceva quasi tutta la città, e tutta la città conosceva lui: aveva attorno centinaia di persone che lo invitavano, lo chiamavano, ricercavano la sua compagnia, ma non aveva stretto veri rapporti di intimità con nessuno. Tranne, appunto, con coloro che lavoravano in quel posto. Almeno un po'.

Alla Casa Stellata era stato assunto pochi mesi dopo essere arrivato, solo e smarrito, a Noravàl: una laurea in scienze della formazione e qualche esperienza pregressa gli erano serviti come titoli d'accesso. Era stato per lui il luogo dove aveva stretto relazioni come era abituato a concepirle: relazioni come quelle che aveva prima di lasciare Mòrask, fatte di conflitti, di rabbia, di lealtà e di passione. Anzi, probabilmente era stata proprio l'influenza di Mòrask a spingerlo a cercare impiego in un posto così: aveva bisogno di trovarsi in qualche modo coinvolto con vite a disagio, con situazioni di degrado che non sembravano trovare spazio nelle strade limpide della capitale. Una volta un vecchio – forse uno degli stessi che gli avevano parlato delle montagne – gli aveva detto che se anche un giorno fosse riuscito a partire, non avrebbe mai potuto andarsene davvero. Forse era solo una suggestione creata dallo smacco di vivere in un paese abbandonato da Dio, ma i suoi compaesani, specie gli anziani, finivano sempre per l'attribuire alla città qualcosa di magico e di vagamente maledetto.

Noam non credeva alle maledizioni: non era andato via con l'idea di fuggire, ma con quella di costruire e la politica era stata solo stato lo sbocco naturale di quel desiderio. Eppure si rendeva conto che certe scelte rispecchiavano un senso di colpa. Certe volte, avrebbe tanto voluto dimenticare; ma non si poteva dimenticare qualcosa che si era costretti a nascondere, e smettere di nascondere significava distruggere tutto ciò che era riuscito a costruire fino ad allora.

Scheletri nell'armadio, già. Scheletri.

"Io sono un educatore." disse, eludendo l'ultima domanda e risalendo all'indietro nella conversazione "Prima della candidatura, lavoravo lì. Sono affezionato ai ragazzi e al personale, e loro lo sono a me, quindi tengo i contatti. Ma detesto l'eventualità che questo aspetto della mia vita privata smetta di essere privato."

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