2. "Relazione"

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A Noam piaceva rientrare a casa. Gli piaceva l'atmosfera che c'era a quell'ora, specialmente nella bella stagione, quando il sole si abbassava dietro i tetti e si sentiva ancora qualche voce di mamma che richiamava i bambini per cena. Erano rarità strappate la tempo che gli ricordavano il luogo da cui veniva, il suo quartiere pieno di grida becere e sbarbatelli per strada: eppure parte della gioia dell'aprire la porta e salire le scale era data proprio dal non trovarsi più lì.

Quell'appartamento l'aveva preso in affitto quando era arrivato a Noravàl senza un lavoro e con pochi soldi in tasca, ragazzo scappato da un paese privo di opportunità, e con una fuga ancora più grande chiusa in valigia.

Ora che soldi non gliene mancavano, l'aveva comprato e fatto ristrutturare. Scelta discussa, dato che avrebbe potuto acquistare una casa più centrale, magari più grande, che gli permettesse di pensare ad una famiglia, per esempio. Ma da quel posto non aveva avuto il coraggio di staccarsi: sarebbe stato come tagliare un altro ponte, ripetere il gesto con cui sei anni prima era salito su quel treno, ed era un ricordo che faceva ancora male.

Un giorno un giornalista gli aveva chiesto se il suo impegno in politica fosse un'espiazione per essere fuggito dal Dàrbrand: formulata così, era un'ipotesi banale, ma nella banalità aveva colto qualcosa di determinante. La ragione che lo aveva spinto ad andarsene era strettamente legata a ciò che lui era e che faceva adesso.

A quella domanda, aveva risposto ciò che amava ripetersi e credere: che se ne era andato per ansia d'orizzonte. Era stata l'unica risposta che gli fosse possibile dare per evitare di mentire, e Noam non amava le menzogne.

Non si era ancora tolto le scarpe quando sentì il campanello suonare.

Sulla porta c'era Adrian Vesna, ma sul momento faticò a riconoscerlo. Era diverso da come lo aveva visto nemmeno un paio di ore prima: sembrava decisamente più giovane, portava occhiali da vista, la t-shirt di un gruppo rock, scarpe da ginnastica consumate e a tracolla una borsa di pelle gonfia e sformata.

"Buonasera! Disturbo?"

Noam lo tirò in casa.

"Signor Vesna, che sta facendo... ?"

Era la prima volta che non lo chiamava col proprio nome: per lui era un segno di evidente difficoltà.

"Lei dovrebbe quantomeno chiedere chi è, prima di spalancare la porta." eluse lui "D'ora in poi, almeno questa piccola accortezza me la conceda."

"Che significa questo... " travestimento, pensò, ma disse "...cambio di look?"

Adrian frugò nella borsa, tra plichi di libri, ed estrasse un portafogli, da cui tirò fuori un documento.

"Faccio quello che lei mi ha chiesto e che i suoi colleghi, del resto, mi avevano preannunciato. La sorveglio 24 ore su 24 senza intralciare la sua vita. O la sua immagine di uomo che si muove liberamente per la città e si fida di tutti."

Pronunciò l'ultima proposizione con un tono che Noam non seppe decifrare: non era critico o dispregiativo, ma c'era dentro qualcosa di stonato.

Il documento riportava una foto di Adrian forse d'un paio di anni più giovane, un nome fittizio, un indirizzo, timbro e firma dell'impiegato comunale di turno.

"In questa identità sono Yiv Bàmen, uno studente fuori sede, ho preso in affitto un appartamento al piano di sotto. Sono sicuro che saremo ottimi vicini e ci capiterà spesso di andare a correre insieme sulle scale del belvedere o di incontrarci sullo stesso treno. Compromesso, signor Dolbruk."

Noam sbatté gli occhi, fissi sul documento falso.

"Le faccio un caffè." disse, atono "Le va il caffè? O preferisce altro?"

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