11. "Mòrask"

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Superato il valico, la strada scendeva lungo un versante che si apriva sull'altopiano, rendendo visibile, in distanza, il profilo della città.

Noam prese un lungo respiro sprofondando nel sedile, la testa lasciata andare all'indietro.

"Sund rork..." esclamò "Mòrask!"

Adrian aveva già sentito pronunciare quell'esclamazione da Vòrkne, quando aveva riconosciuto l'ospite sulla porta.

"Che significa?"

"Oh, scusa." Noam ritrovò il suo sorriso ineffabile "Sund rork è un intercalare comune, ma suppongo sia intraducibile. Sta un po' tra l'essere sorpreso nel suo lato piacevole e l'ansia di quella sorpresa, non so se mi spiego. Tipo quando ti selezionano per un concorso ma poi la dimostrazione vera è ancora tutta da dare. Abbiamo un sacco di espressioni intraducibili: sono quelle che mi piacciono di più. Beh, suppongo sia così per qualsiasi altra lingua, in verità, perché diverse comunità sviluppano modi diversi di definire le cose: non diversi sentimenti, quelli immagino siano universali, ma diversi modi di percepirli e quindi di dirli. Sai, il mio nome è anche lui una di queste parole che perdono un sacco nel passaggio da una lingua ad un'altra: dol bruk significa qualcosa come ritornare a casa, ma non casa intesa come famiglia né come comunità... è più la sensazione di entrare in un posto quotidiano, che ti dà benessere, in cui stai comodo: per farla facile, quella sensazione di quando apri la porta di casa e dietro ci trovi il gatto. È una parola bellissima, ed io la amo!"

"Mi piace sentirle parlare in dialetto." confessò "Lei mette qualcosa di morbido dentro parole stridenti. Viene voglia di starla a ascoltare, sa? Anche alle tre del mattino... "

Non voleva nascondergli di aver origliato la sua conversazione con Vòrkne. Del resto, non aveva capito una parola e Noam lo sapeva.

"Si dice lingua dar-breuk, per carità!" scherzò, con un punto esclamativo volutamente esagerato "Se ti sentono chiamarla dialetto sei un uomo morto! E comunque: se stanotte ti fossi unito a noi avrei tradotto per te."

"Oh, ne sono certo. Lei è un uomo educato. Ma avrei interrotto la vostra conversazione, che, di fatto, non aveva nulla a che fare col mio lavoro. Dico bene?"

Noam diede in un'ariosa risata.

"Non avresti dovuto accettarlo, questo lavoro... " cantilenò, con ben altra leggerezza rispetto al giorno precedente "Però sono felice che lo abbia accettato, perché tu mi fai sentire solido. Ti dimostrerò la mia gratitudine svelandoti lati di Mòrask di cui neppure gli autoctoni immaginano la bellezza! Ti va?"

Adrian aveva conosciuto molte persone brave a lusingare, persone che sapevano fare il commento giusto nel momento giusto, fare leva sul dettaglio giusto, trovare l'espressione giusta, ma quell'affermazione lì – tu mi fai sentire solido – buttata in mezzo al discorso quasi come un inciso o una parentesi trascurabile, era veramente un complimento grandioso. Impegnativo, ma grandioso.

"Mi va. Purché lei non mi renda troppo scomodo guardarle le spalle mentre fa da guida turistica."

"Giuro sulla mia testa."

"No, per favore. La tenga al sicuro, la sua testa: ne va della mia reputazione!"

Il sole era sfacciatamente brillante e l'abitacolo dell'auto si stava scaldando. La città era ormai a due passi: l'atmosfera aspra e cupamente verde delle montagne, il silenzio immobile e l'intrinseco senso di insicurezza di quelle strade nodose (reti di metallo a contenere intere pareti di roccia, coi cartelli sbiaditi "pericolo di frana") avevano fatto posto a un paesaggio ben più urbanizzato, per quanto con un sentore di trascuratezza diffuso: centri abitati periferici, la cui vita gravitava intorno a quella di Mòrask, qualche borgo dalle caratteristiche architettoniche antiche, forse meta turistica, alcune zone industriali e molto spazio vuoto, cantieri lasciati a metà, ampie distese di terreno, forse coltivato forse no. Passandoci proprio sotto, ad Adrian non sfuggì l'insegna sul grosso complesso che si trovò sulla sinistra non appena la pendenza si fu completamente esaurita: "Òraviy e soci".

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