22. "Fratelli"

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Segùr.

Lant.

Le amministrative.

Perdere quelle dannate amministrative.

Le meringhe, il caffè, la tiepida domenica di settembre.

Segùr completamente solo in un ufficio vuoto.

Le sue previsioni.

Il suo disprezzo.

...

Noam vagò tutto il giorno per la città senza avere l'energia di fare niente, sorvegliato a distanza da uno sconosciuto assegnato alla sua sicurezza, e il fatto stesso che non trovasse quella situazione imbarazzante la diceva lunga sul suo stato emotivo.

Avrebbe tanto voluto chiamare Adrian, chiedere alla sua voce salda di mettere ordine nella sua testa, trattenerlo dal seguire il filo dei suoi pensieri che si aggrovigliavano in una matassa informe.

Ma ogni volta che tirava fuori il telefono si ripeteva che, se lui aveva avuto bisogno di andare da qualche parte e mentirgli, allora era meglio non cercarlo, anzi, era meglio che non sapesse proprio niente... e non capiva se era premura, la sua, o solo stupida ripicca; se non voleva imporgli la sua presenza o se voleva tenergli un segreto.

Il ricordo della conversazione di quel mattino continuava a torturarlo.

Nessuno gli aveva mai parlato di morte con tanta naturalezza.

Di quella di Lant. Della sua.

Nessuno gli aveva mai detto, parafrasato nella sua disarmante e dolorosa semplicità, "se ti ammazzano non me ne importa niente: te la sei cercata".

Nessuno lo aveva mai accusato di star mettendo a rischio la vita di un'altra persona.

Un giorno aveva detto ad Adrian che la politica era una serie di esperimenti che spesso si facevano sulla pelle degli altri... ma non così: lui non voleva farlo.

Eppure, fin da quando aveva accettato di sostenere Màrna, aveva saputo che non stava più mettendo in pericolo solo se stesso. Lant correva un rischio maggiore del suo, perché ci sarebbe stato lui, a Mòrask, e avrebbe portato il peso delle scelte di entrambi. Non solo: Segùr aveva ragione nel pensare che il partito avversario avrebbe colto un qualsiasi attacco contro un sindaco filo-separatista come un perfetto assist per affossare ogni futura possibilità di dialogo, e questo era vero anche senza bisogno di uccidere nessuno... Minacce, incidenti, proteste di piazza – tutte cose che Noam sapeva ci sarebbero state – potevano essere strumentalizzate per dimostrare che i darbrandesi non desideravano scendere a compromessi, che erano le solite teste di pietra con cui era inutile trattare.

D'altro canto era anche possibile che annoverare tra le proprie fila un martire portasse una pioggia di consensi a Liberi Insieme...

Sentì la testa girare.

Non così, non così. Così non andava bene.

Era entrato in politica per colpa di un dannato, inutile martirio: lo aveva fatto per impedirne altri. Come aveva potuto mettersi nella posizione di aprire la strada a questa eventualità?

Màrna ne era cosciente, certo: Màrna aveva fatto una scelta e accettato la posta in gioco. Ma, maledizione, anche suo padre l'aveva fatto.

All'improvviso gli risuonarono nella mente le parole dell'uomo che lo aveva soccorso quel giorno, ovattate e confuse dalle grida dei superstiti, dal crepitio delle fiamme e dal fischio che gli trapassava la orecchie: Fidòr avrebbe voluto così. Avrebbe voluto cosa? Che suo figlio ne uscisse vivo o che una galleria crollasse, uccidendo quattro persone? Avrebbe voluto non morire? O invece voleva proprio morire e che la sua morte diventasse simbolo di una rinnovata lotta? E cosa voleva, Lant Màrna? E lui? Cosa voleva lui? Lui voleva restare vivo, fare cose, incontrare persone, avere amici, guardare orizzonti, invecchiare. Lui amava la vita. E allora perché giocava a vivere sul filo del rasoio, come gli rimproverava Segùr e come gli aveva rimproverato anche Adrian?

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