26. "Proteggere"

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La fastidiosa pioggerella era cessata e dalle nubi si era affacciato un piccolo spiraglio di sole.

Lentamente, la piazza si era popolata: all'inizio dell'evento mancava meno di mezz'ora.

Noam non si era quasi mosso dal luogo in cui aveva scambiato le ultime parole con Adrian: guardava le persone accalcarsi alle transenne e riconobbe qualcuno dei ragazzi incontrati durante la notte; riconosceva bene anche quelli che erano lì per fischiare e protestare (sguardi noti, prossemica nota, era stato anche lui uno di loro); poi c'erano i curiosi, quelli che si erano avvicinati perché non sapevano neppure cosa stesse accadendo, e se quel palco fosse stato montato per una celebrzione, uno spettacolo teatrale o un concerto. Noam poteva indovinare i pensieri dietro ciascuno di quei visi, ma non aveva nessuna voglia di inseguirli. La sua mentre era occupata da Adrian, da Màrna, dal desiderio di vederli sbucare tagliando in due il cordone di polizia mentre dicevano niente, tutto bene, falso allarme.

Tutto gli sembrava distante e irreale: lui così piccolo e insignificante, il palco all'improvviso enorme, incombente, e davanti a sé gli abitanti della sua città; alle sue spalle, da qualche parte, stampa e televisione pronti a manipolare quell'evento per conto di questo o di quello, come era sempre stato da quando c'era lui oltre le transenne, con gli striscioni tesi, a fischiare il politicante di turno; tutto intorno, poliziotti in uniformi scure, dietro scudi scuri, con occhi scuri, nero fuori e nero dentro, barricati in se stessi per sentirsi più forti degli altri.

Da qualche parte, altrove, l'unica persona di cui sentiva di potersi fidare.

Come poteva pretendere che Mòrask si fidasse? Come poteva, in quell'atmosfera, aspettarsi dagli altri il salto nel vuoto più grande: la fiducia in lui?

Pensò a suo padre, a che cosa avrebbe detto, che cosa avrebbe fatto nel vederlo lì. Ma era un pensiero stupido: se Fidòr Dolbruk fosse stato vivo, ogni cosa sarebbe andata diversamente, non avrebbe perso Thièl, non avrebbe visto Noravàl, non avrebbe...

Poi all'improvviso qualcuno gridò.

Erano i poliziotti, c'era qualcuno che fischiava, e poi sentì la voce di Adrian: si voltò in quella direzione e lo vide saltare la transenna mentre il cordone cercava di ricomporsi, scompaginato e confuso. Correva verso di lui gridando il suo nome, facendogli segno di muoversi, di andargli incontro, e c'era un'urgenza disperata in ogni suo gesto, in ogni fibra del suo corpo.

Noam fece per muoversi, ma si rese conto di essere completamente pietrificato.

Cos'era quel terrore negli occhi di Adrian?

Perché Lant non era lì?

Era morto?

Cos'era successo?

Si sentì sopraffare dal panico.

Per un lunghissimo momento, vide se stesso correre: sapeva di essere fermo, eppure da qualche parte nella sua mente stava correndo, ed era una corsa senza speranza, e sopra la sua testa non c'era più il cielo piovigginoso di quel mattino, non c'erano la cima del campanile e il piccolo spiraglio di sole, c'era solo il soffitto buio e incombente del traforo del Nòdoask.

Adrian lo afferrò per un braccio, lo strattonò e lo spinse avanti a sé gridando qualcosa.

Poi il mondo esplose alla loro spalle.

***

Cos'era accaduto, quel giorno?

Credeva di non ricordarlo così bene.

Invece le immagini erano lucide, le sensazioni erano lucide, tutto era perfettamente nitido e chiaro.

L'ingresso della galleria era gremito di gente, e anche allora c'era la polizia a tenerla a distanza, perché non ci si deve accalcare in una galleria, no, è pericoloso (perché voi siete pericolosi, voi darbrandesi incivili e testardi, sempre pronti a ricorrere alla violenza): ma il pericolo era già all'interno, e Fidòr era di certo felice, quella volta, che ci fossero scudi e manganelli tra lui e la sua gente venuta a curiosare, e che vicini a lui ci fossero solo i suoi due bersagli: l'allora sindaco di Mòrask, che aveva permesso e caldeggiato i lavori, e il vice ministro dei trasporti in persona (quale onore per la città!), tronfi e tirati a lucido davanti al nastro rosso da tagliare.

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