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Una volta tornati a New York, io e Daniel avevamo ripreso la nostra vita con la tranquillità acquisita prima della festa di Halloween. Era infatti già passata una settimana e noi non avevamo più avuto alcun tipo di problema: al mattino, uscivamo insieme per dirigerci al lavoro, poi passavamo la pausa pranzo da Starbucks e, mentre lui tornava in ufficio, io passavo prima da Fabien, poi dal corso di arredamento; infine, ci ritrovavamo a casa, quasi come una coppia che stesse insieme da anni.

Varcai la porta a vetri del Citigroup Center con un vassoio di cartone pieno di caffè e chiesi a Manuel, della reception, il mio lasciapassare. Ormai mi conosceva e non faceva più tante storie. Salii allora le scale che portavano agli uffici del settore borsista, accompagnata da un andirivieni di uomini in giacca e cravatta che si trascinavano dietro cappotto e ventiquattrore, e mi feci strada fino a dove ormai avevo imparato che si trovasse il bureau di Daniel e della sua squadra. Attraverso le pareti trasparenti, però, mi resi conto che al suo interno si trovasse soltanto il mio compagno; quindi, evitai persino di bussare ed entrai.

Lui si alzò d'istinto, sentendo i miei passi, e si voltò verso di me.

«Ciao», lo salutai. Sul suo volto leggevo un'espressione preoccupata al punto da non riuscire a sorridergli io stessa. «Gli altri? Ho portato il caffè.»

«Ho concesso loro una pausa» borbottò mentre posavo il vassoio sul tavolo pieno di scartoffie. «Avevo bisogno di stare solo per un po'.»

«Oh,» feci, compiendo al tempo stesso un passo indietro, «vuoi che me ne vada? Posso ripassare per pranzo. O se preferisci, ci vediamo direttamente a casa.»

Daniel sospirò e si passò una mano tra i capelli; quindi chiuse gli occhi e scosse il capo, con evidente frustrazione. «No... no. Mi sono espresso male.» Allargò le braccia, dipingendosi in faccia il sorriso più falso che gli avessi mai visto. «Vieni qua, gioia.»

Mi avvicinai per ricambiare il suo abbraccio, ma quando tentò di baciarmi mi tirai indietro. «Va tutto bene?» mormorai.

«Ho avuto una riunione con John, prima.»

Trattenni una smorfia di disappunto; il suo capo non mi piaceva per niente, ormai era risaputo. Non mi fidavo di lui dal primo istante che lo avevo incontrato, con quella sua faccia da poker che spaziava dal sardonico all'accondiscendente, senza mai farti capire cosa pensasse davvero delle questioni che gli si ponevano davanti. Era freddo, calcolatore e spietato. Non era dotato di alcuna etica, né sul lavoro, né nella vita privata, e questo era chiaro dall'accordo che aveva stipulato con la banca centrale tedesca tanto quanto dal modo in cui aveva trattato quella stagista alla festa di Halloween, Jasmine. E nonostante sapessi quanto fosse stato importante per la crescita e la carriera di Daniel, non potevo fare a meno di imputargli, in parte, certi suoi atteggiamenti scostanti che assumeva quando non voleva mostrarsi fragile; perché se il carattere affettato lo aveva imparato dal padre, era certo stato John Rickman a trasmettergli gli strumenti per metterlo in pratica.

«Hai mai sentito parlare dei PIGS?» continuò Daniel ed io scossi il capo. «Portogallo, Italia, Grecia e Spagna sono i Paesi europei con le situazioni economico-finanziarie peggiori dell'Unione, spesso deficitarie.»

Doveva essersi reso conto che non stessi seguendo, perché mi invitò a sedermi sul tavolo da riunioni e si accomodò sulla sedia di fronte a me, i miei piedi piantati ai lati del suo corpo. Lanciò un rapido sguardo tra le mie gambe, al di sotto della mia gonna, e si passò la lingua tra le labbra, prima di ripartire da zero nella sua spiegazione.

«Ogni Paese, per finanziare la spesa pubblica laddove i fondi erariali dei contribuenti - in sostanza, il pagamento delle tasse - non sono sufficienti, emette degli strumenti finanziari, ovvero dei titoli.» Mi rivolse un sorriso divertito. «Entrano in Borsa, Abby.»

𝑺𝑶𝑳𝑶 𝑫𝑼𝑬 𝑺𝑼𝑷𝑬𝑹𝑵𝑶𝑽𝑬Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora