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Ronan e sua sorella Elizabeth se n'erano andati da un paio di giorni e la nuova settimana era iniziata come la precedente. L'episodio di quei due ragazzini ovviamente non portava con sé alcuna speranza che le cose sarebbero tornate come erano prima; al contrario, erano forse peggiorate, con il senso di colpa suscitato in Daniel. E noi non avevamo più parlato della discussione di quel giorno. So che forse non avrei dovuto, ma l'unica cosa che mi sentivo di fare era stargli vicino e aggrapparmi al "ti amo" che ci eravamo detti prima di addormentarci sul divano. Quello, al momento, era l'unica cosa che mi rassicurasse sul fatto che ci saremmo rimessi in carreggiata, prima o poi. Non avrei dovuto farmelo bastare, ma non potevo chiedere di più a Dan, non quando era in quello stato catatonico tra il presente ed il passato, tra la realtà e tutti gli "se avessi" che sapevo gli frullassero ancora per la testa.

«Abby?» mi richiamò Marianne. «Mi stai ascoltando?»

«No», ammisi. «Mi dispiace, Anne.»

«Va tutto bene?»

Sospirai e scossi il capo ad occhi chiusi. «Io e Daniel stiamo passando un brutto periodo, tutto qui.» Mi sforzai di rivolgerle un sorriso. «Cosa stavi dicendo?»

«Ho parlato con Divya, ieri sera.»

«È fantastico, Marianne!» esclamai, davvero sollevata. Significava che stesse facendo passi da gigante nella direzione giusta, che stesse cercando di mettersi in testa quale fosse la cosa migliore da fare per se stessa e per il proprio bambino. «Che ne dici se ne parliamo stasera? Potresti venire da me.»

«Se tu e Daniel siete in una brutta situazione, non credo sia il caso.»

«Figuriamoci,» la liquidai con un cenno della mano, «la specialità di Daniel è fingere che vada tutto bene davanti agli altri.» Il sorriso mi si congelò in volto, notando i contorni del fondotinta attorno all'occhio sinistro di Marianne. Le posai una mano sulla guancia e una microespressione sofferente le attraversò il volto, ma feci finta di non averla notata per non metterla a disagio. «E poi, tu sei sempre la benvenuta.»

Alla fine, lei accettò, quindi le consigliai di passare dopo il mio turno in pasticceria, che quel giorno sarebbe stato nel pomeriggio.

Avevo iniziato a passare la pausa pranzo da Fabien. Lui indossava ogni giorno un completo sgargiante e faceva trovare la vasca da bagno ed il vestito pronti per sfruttare l'ora buona di luce, così che i raggi del sole si abbattessero sull'acqua attraverso il lucernario del bagno. Quando iniziava a dipingere, poi, metteva su della musica da un vecchio stereo e di tanto in tanto canticchiava, per poi cambiare le cassette quando il nastro terminava.

Dopo un po' facemmo una pausa e io mi trascinai dietro il pesante abito per avvicinarmi al cavalletto e guardare come stava procedendo il dipinto: aveva rappresentato il vestito, i fiori e stava iniziando il viso. Il tutto era tanto particolareggiato da sembrare una fotografia e, se non lo avessi visto all'opera, avrei pensato che Fabien avesse trovato una scorciatoia, perché i suoi quadri venissero così bene.

«C'è ancora una gran mole di lavoro da fare» disse l'artista alle mie spalle ed io mi voltai verso di lui incrociando le braccia al petto, sentendo un po' di freddo a causa dell'acqua che ancora impregnava il vestito.

«Per ogni cosa fatta bene ci vuole del tempo» lo giustificai stringendomi nelle spalle.

Lui mi invitò a prendere una tazza di tè caldo che io accettai volentieri. La sorseggiai seduta sul bordo della vasca, mentre lui si limitava a tenere la tazza in una mano mentre con l'altra reggeva una sigaretta accesa. Ogni tanto si portava la bevanda alle labbra o se la rigirava tra le dita, a volte la fissava assorto.

«Da dove vieni, Fabien?» gli chiesi, curiosa di sapere che origine avesse il suo nome.

«Sempre vissuto a New York. Mio padre immigrò dalla Costa Azzurra quando finì il liceo e incontrò mia madre in una vacanza nel Nevada. Galeotta fu Las Vegas: mia madre stava festeggiando l'addio al nubilato di sua zia Marjorie; quella vecchia baldracca aveva adescato un altro toy boy, a detta di mia madre» mi raccontò con un sorriso divertito. «A ogni modo, è dalla patria di mio padre che viene il mio nome francese. In realtà io non sono mai stato in Francia, non ancora. Però sogno di esporre le mie opere nella Ville Lumière, un giorno; sarebbe il mio più alto traguardo.»

𝑺𝑶𝑳𝑶 𝑫𝑼𝑬 𝑺𝑼𝑷𝑬𝑹𝑵𝑶𝑽𝑬Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora