Capitolo 9

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Noah

La mattina iniziò molto male visto che subii una sgridata dai miei genitori.
Erano tornati prima perché gli affari erano saltati. Così eccoli qui.
Salutai cordialmente mia sorella ignorando quei due idioti di mia madre e mio padre mandandoli a quel paese.
Corsi a scuola recandomi in palestra ma non una normale ma, bensì, una palestra di hockey.
Andai negli spogliatoi iniziando a cambiarmi.
Misi le mie protezioni: bracciere, gomitiere, ginocchiere.
Dopo passai ai pattini.
In più in testa dovevamo mettere un casco con cui il caldo si faceva sentire e non poco!
«Ehi capitano!» mi salutarono Alex e Jonathan seguiti da Greg.
I primi due erano i due difensori dei Silver King, la nostra squadra.
L'ultimo era, invece, il portiere.
Intanto io stavo indossando i miei pantaloncini corti sopra tutte le protezioni.
Poi passai alla maglia dove sul davanti, in un angolo, c'era stampato il logo della squadra, una corona d'argento racchiusa in un cerchio.
Sulla schiena, invece, era inciso il mio cognome e, sopra esso, il mio numero, il 72.
Gli feci un cenno con la testa avvicinandomi ai miei migliori amici, Connor, che stava alla mia sinistra ed era il numero 22, e Bryan, sul lato destro, il numero 15.
Ci allenammo per molto tempo, quasi quattro ore.
Ero esausto come tutti gli altri giocatori e al fischio del coach corsi verso la panchina dove mi sedetti e presi la mia bottiglietta d'acqua.
Osservai il campo allungato e bianco.
Ai lati le due porte avevano sbarre blu e rete bianca.
Per terra, invece, c'erano solo delle linee sottili che delimitavano il campo.
Dietro di me c'erano gli spalti preceduti da una barriere di ferro con un vetro sopra. Questo serviva per proteggere le persone in caso il puck fosse stato lanciato troppo forte verso l'esterno.
«Ehi cazzoni! Venite subito in campo! Si riparte con l'allenamento e non voglio sentire una mosca volare! Su muovetevi!»
Vi presento il coach Robinson.
Ci insegna a giocare a hockey da tre anni.
Tre anni che ci urla contro.
Non capisco perché abbia ancora la voce visto che grida come un pazzo.

Tutti noi ci dirigemmo verso i nostri posti e ricominciammo l'allenamento.

Due ore dopo eravamo eccitati e pronti a giocare la partita contro una squadra proveniente da un'altra scuola.

Io ero nello spogliatoio con Bryan e Connor e ci stavamo vestendo.
«Allora siete pronti?» chiesi io carico di energia.
«Si, sono prontissimo capitan Wood» disse con tono scherzoso il ricciolino.
«Ovvio» disse l'altro.
Si misero a ridere e io lo colpì entrambi dietro la testa.

3...
2..
1.
Si va in campo!
Gli spalti erano stracolmi di persone visto che tutto il liceo stava assistendo.
La palestra era sommersa da un boato di voci diverse che conversavano, ridevano, esultavano.
In quel caos, però, riuscii e sentire la sua voce. Melodiosa, dolce, delicata.
Mi voltai e i miei occhi si mossero da soli trovandola in mezzo a tutta quella gente facendomi sparire dal mondo per alcuni minuti e trasportandomi in un luogo dove noi due eravamo gli unici a esistere. Ci fissavano senza riuscire a slacciare il nostro sguardo che pian piano si faceva più ardente provocando scariche elettriche nel mio corpo e nell'aria.
"Devi ignorarla, per il suo bene. Fallo per questo" mi ricordó la fastidiosa vocina nella mia testa.
Mentre mi ripetevo questo non riuscivo a sciogliere l'intensità dei nostri sguardi.
Mi risvegliai al fischio dell'arbitro e mi posizionai al centro davanti al capitano della squadra successiva.
«Face off!» la partita cominciò e iniziai a pattinare sul pavimento ghiacciato cercando di segnare.
L'adrenalina saliva ogni minuto sempre di più.
Aumentava. Aumentava.
Aumentava. Aumentava.
E io iniziai ad andare più veloce per quella landa ghiacciata.
A metà partita uno dell'altra squadra fece cadere Ryan e, visto che le regole di questo gioco sono così stupide, non ci furono conseguenze per lui cosa che trovavo sbagliata contando anche la forza con cui lo aveva spinto.
Per fortuna stava bene e ritornó in campo più carico di prima.
Alla fine vincemmo la partita.
3-0 per noi.
Ero felicissimo della nostra vittoria.
"Mio padre sarà orgoglioso di me, oggi" pensai.
Mi voltai verso i miei amici e vidi arrivare le amiche di Chloe a congratularsi con noi.
Nella mia testa si accorsero migliaia di campanelli d'allarme quando una testolina ramata di avvicinava a me.
Usai, quindi, quello che mi era stato insegnato in tutti questi anni i miei genitori. L'indifferenza.
La ignorai e capii dal suo viso malinconico che ci era rimasta male ma non potevo fare niente.
Se le avessi permesso di starmi accanto avrebbe potuto innamorarsi di me e io non ero il tipo da relazioni.
Nella mia vita c'erano solo sofferenza e delusione.
L'affetto non esisteva.
L'amore non esisteva.
La felicità non esisteva.
Ma soprattutto,
la libertà non esisteva.
Non potevo farle questo.
Non avrei sopportato fare del male a qualcuno, non di nuovo......

"Avevo sedici anni.
Ero a scuola.
In questa scuola.
Una ragazza quell'anno si era innamorata di me e io provavo lo stesso sentimento per lei.
Eravamo molto legati e speravamo che col tempo qualcosa tra noi cambiasse, si evolvesse.
Questo capitò due settimane dopo.
Finalmente ci fidanzammo decidendo di convivere pronti a esplorare il nostro amore.
Una mattina però, andammo a casa mia, e trovai i miei genitori a cui presentai subito Julie, la mia ragazza.
Loro non erano molto felici che lei prendesse parte a questa famiglia, non perché non fosse carina, ma perché proveniva da una famiglia non tanto agiata.
Io mi arrabbiai subito con loro e ...
Vorrei tanto non averlo fatto.
Il giorno dopo scoprii che lei aveva avuto un incidente. Una macchina l'aveva investita.
Finì in ospedale e per una settimana rimasi con lei fino a quando...
«Ora del decesso 10:22». Questo fu quello che disse il dottore quando uscii dalla sua camera per poi venire a consolarmi.
«Te la sei cercata. Così impari a mancarmi di rispetto davanti agli altri per difendere una ragazza come quella»
"Come quella". Le sue parole mi tormentarono ogni giorno dopo quella volta.
Il nostro rapporto cambiò e io lo odiai con tutto il mio cuore ma sapevo che non avrei mai potuto, o voluto, deluderlo.
Non per me. Ma per la sicurezza degli altri.

Abbandonai i miei pensieri e guardai, a malincuore, che si allontanava con viso triste e questo mi provocò una fitta al petto.
Perché?
Uscimmo dalla palestra recandoci negli spogliatoi.
Io andai a farmi una doccia fredda per spegnere la mente e rilassarmi.
Mi vestii e andai a prendere la mia auto pronto a tornare a casa.
Mi ricordai di dover passare a prendere mia sorella.

Svoltai quindi l'angolo fermandomi di colpo.
Cazzo!
Perché ogni cosa va storta nella mia vita.
Mia sorella, Grace, stava chiaccherando con una piccola ragazzina fastidiosamente nei miei pensieri.
Odiavo il fatto che mi tormentasse con tutta la sua bellezza.
Mi avvicinai a loro con la mia Ferrari osservando le due.
Mia sorella mi chiese di accompagnarla a casa e sarebbe stato molto gentile visto che tra poco avrebbe piovuto.
Però io non volevo essere gentile, così, per portare il mio piano avanti, decisi di ignorare la sua presenza rifiutando bruscamente la supplica di mia sorella.
Poi, però, accadde l'inaspettato.
Iniziai a sentire una sensazione nuova. Gelosia.
La percepì dopo che la ragazzina disse di poter essere accompagnata da un altro ragazzo fino a casa e questo pensiero mi fece arrabbiare ma non lo feci notare.
La provocai e lei fece lo stesso.
Nell'aria si creò molta tensione provocata dalle nostre parole.
Alla fine l'accompagnai a casa e scappai verso la nostra villa appena scese.
"Non posso. Non posso.
Non di nuovo". Me lo ripetevo continuamente per non cedere alla tentazione e avvicinarmi a Chloe facendo un disastro.
«Ci sarai al ballo in maschera stasera?» mi chiese mia sorella curiosa.
«Si, i miei due amici mi hanno obbligato» gli risposi.
Dopodiché entrammo in casa e andammo nelle rispettive camere.

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