Capitolo 2

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"Il filo però non deve spaventarti. Devi preoccuparti se questo filo rimane sempre allentato, senza nessuno stimolo per spezzarsi."

Nel cuore della notte, il silenzio dell'ospedale venne interrotto da un respiro affannoso. Nella mente di una giovane donna, presente in quel luogo che mai avrebbe voluto vedere, un terribile incubo stava per far tremare ogni singola parte del suo corpo.

Si trovò di nuovo sul suo ring, il luogo che amava più di ogni altro.
Ma qualcosa era diverso.
L'aria era carica di un'atmosfera inquietante, e il pubblico attorno a lei era solamente un'ombra sfocata che con boati le dicevano che avrebbe perso, che doveva scappare, lontano.
La campana suonò.
Il solito suono che fin dall'infanzia aveva sentito prima dei match di suo padre.
Attese il suo avversario ma nessuno era di fronte a lei.
"Dove sono tutti? Dove ti nascondi?" Aveva gridato con tutte le sue forze.

D'improvviso, il pavimento del ring iniziò a tremare, e le corde attorno a lei cominciarono a prender vita cercando di afferrarla.
Ogni movimento che ella compiva la portava sempre più giù. Era come muoversi attraverso la melassa.
Il panico la soffocava mentre delle mani la tenevano ferma, sempre di più, finché non si ritrovò intrappolata sotto il ring, incapace di muoversi o gridare.

Quello che non sapeva era che le mani non erano lì per farle del male, ma per mostrare la verità.
Erano le mani del destino che la costringevano ad affrontare la sua realtà: la caduta, il colpo alla testa, il ginocchio rotto. Ogni mano rappresentava una sfida che aveva incontrato, un colpo che aveva assorbito, una cicatrice che aveva guadagnato.

Con uno sforzo sovrumano, Alisson si liberò dalla presa e risalì verso la luce. Ma non da sola.
Una possente mano, la tirò su, attendendo che ella stessa realizzasse cosa aveva appena vissuto.
"Te l'ho detto. Sei più forte ed ingenua di quanto pensi".

Si svegliò sudata e tremante, senza forze in corpo

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Si svegliò sudata e tremante, senza forze in corpo.
Quell'incubo era stato un monito, un promemoria crudo della sua vulnerabilità.
Ma di chi era quella mano? Forse di suo padre?
Fu sicuramente la prima risposta che le venne in mente.

Emerse lentamente dalle nebbie del coma farmacologico. La consapevolezza affilata come un rasoio che taglia il velo del tempo perduto.
Una settimana intera era svanita sotto i suoi piedi, una settimana dal suo trionfo sul ring, dall'incoronazione come campionessa.
Lì, al capezzale del suo letto d'ospedale, una figura imponente vegliava stanca su di lei. "Stone Cold" Steve Austin, il padre dall'aspetto duro ed il cuore tenero, che le stringeva la mano con una tenerezza inaspettata.
"Papà?" Fu quella la sua prima parola al risveglio. Una parola che fece quasi scattare suo padre che con occhi lucidi la studiò, sperando fosse realtà.

La cintura, segno della sua vittoria, accanto al lettino. Fiori in quasi tutta la stanza. Medici che fissavano la scena attoniti. La gamba destra immobile e fasciata.
Era davvero successo?
Tutto il suo trionfo, la felicità... era davvero tutto sparito in un baleno?

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