cap26: sindrome di stoccolma

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Una volta terminato il discorso, se ne creò uno nuovo: bisognava o non bisognava parlarne con Yuki?
Questo fu un punto che si chiarì solo all'interno di una bolla ricolma di imbarazzo, dove erano chiusi Coen, Er e Menila. Quest'ultima era girata e cercava di parlare a voce alta senza balbettare, ma quella situazione non le permetteva di fare nessuna delle due cose.

«Non pensa-a... sì, che...bisognerebbe parlarne c-con Yu...ki?»

Sentiva le gambe tremare, si era accorta solo dopo che Kuro era uscito che i due erano totalmente nudi e con solo le code a coprirli, ma sembrava che l'imbarazzo non li scalfisse affatto.

«Penso di sì, ma per ora aspettiamo che l'antidoto sia pronto. È vero che abbiamo poco tempo, ma dobbiamo anche guadagnarlo cercando di non farla andare in panico. È mia sorella, so come comportarmi con lei»

«È decisamente un tipo sensibile. Non vorremmo mai che le accadesse nulla di male o che il processo di neutralizzazione accelerasse per situazioni psico-fisiche»

Detto ciò, Lila ebbe il tempo per annuire e scappare via, chiudendosi la porta alle spalle, lasciando gli amanti ai loro affari e facendo scoppiare quella bolla che si era creata.

|▶️ The ending you deserve~ Livingston|

«Allora...cosa vogliamo fare? Continuiamo o...?» disse con tono malizioso Coen, ma lo sguardo preoccupato della sua ragazza gli fece capire che non era assolutamente il momento adatto. Così scese dalla scrivania, le porse i vestiti raccolti da terra avvolgendola nella sua giacca e dandole gli altri tra le mani, poi le baciò la fronte. La guardò ancora, accarezzandole dolcemente il viso e facendole un sorriso che svanì subito dopo che l'albina singhiozzò. La paura di perdere sua sorella la attanagliava più che mai. Iniziò a piangere non riuscendo a trattenersi, e strinse i vestiti a sé, debole anche solo per provare a stracciarli. Dentro di sé, sentiva che non doveva e non poteva farne parola neanche con i suoi: lei era l'unica in famiglia che in certe situazioni, di fronte agli altri, riusciva a contenersi e avere un pensiero razionale e chiaro; ma ora le sembrava decisamente impossibile. Entrambi i suoi genitori erano fin troppo emotivi quando si trattava di questioni interne alla famiglia, specialmente se di questo calibro. Ma ora che si trovava in questo stato, si sentiva troppo debole. Sola, con un segreto troppo grande da custodire, seppur vi fossero altri a conoscenza di ciò. Teneva gli occhi chiusi per non vedere la realtà, e nel mentre un freddo atroce le saliva lungo la schiena, anche se era coperta dalla giacca. Sentiva che non era una coincidenza, ma non voleva neanche credere che fosse fatto apposta. Troppi pensieri le annebbiarono la mente, e la testa iniziò a dolerle. Anche se era da tanto che conosceva Coen, non voleva che la vedesse in quello stato. Ora era messa totalmente a nudo davanti a lui che la guardava e pensava cosa fare: corpo, difetti, paure ed insicurezze che lei pensava la rendessero orrenda di fronte a colui che amava; per cui cercò di voltarsi, di nascondersi in qualche modo, portando i capelli sciolti sul volto, scombinandoli più che poteva. Si coprì la bocca per ovattare i singhiozzi e piccoli lamenti, incontrollabili e tremendi, che poco a poco diventavano affannosi trasformandosi pian piano in ciò che si rivelò essere un attacco di panico.

«Non...non guardarmi! Non è così che voglio farmi vedere da te!» gridava, mentre l'aria poco a poco finiva e il suo volto diveniva viola.

Ma lui non la ascoltò. Volle starle vicino ad ogni costo, cercare di calmarla e aiutarla. Con uno scatto la prese e la strinse forte fra le sue braccia, e facendo tutto ciò che poteva per tranquillizzarla: la dondolò un po', come fosse una bambina, poi le asciugò le lacrime, più e più volte se serviva e infine prese il volto tra le mani e lo portò vicino al suo in modo tale che le fronti fossero attaccate, le accarezzò gentilmente i capelli e le orecchie, continuando a baciarle ogni angolo del viso ormai divenuto salato e bagnato per il pianto incontrollabile. Era in crisi, e lui lo sapeva, ma si sentiva terribilmente in colpa per non poterle eliminare la paura di una morte molto probabilmente incombente su una persona così vicina.

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