Organizzazione

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Caligo

Mi misi in piedi.

Migliaia di urla mi assordavano.

Ignis non era accanto a me. Le voci erano di mamma, papà e qualcun altro.

Qualcuno che non riuscivo a riconoscere.

Scossi il capo per svegliarmi completamente ed infilai delle ciabatte, molto più grandi del mio piede, ma erano quelle più piccole appartenenti a mio padre.

Mi affrettai a cambiarmi i vestiti.

Papà rise.

«Parvus. Se pensa davvero che mi sottometterò solo per un'informazione che non mi serve granché, si sbaglia di grosso».

Parvus?

'Chi diavolo è Parvus?'

«Cumeret, non urlare. I ragazzi dormono. Controllati». Bisbigliò mamma. Io distolsi l'attenzione da una conversazione che non mi riguardava e mi appiattii i capelli sbarazzini con un po' d'acqua, poi uscii dalla stanza.

Ero più che curioso di sapere chi era Parvus e perché parlava con i miei genitori, ma l'ultima cosa che volevo fare era mancare di rispetto ai miei genitori: erano l'unica cosa che mi permetteva di stare al Tutum senza problemi.

Erano tutti nell'atrio a fare colazione, quindi ero tranquillo fra i corridoi.

Cominciai a correre. Non ci voleva tanto per arrivare alla camera Daemon dalla mia: solo due rampe di scale.

Perché mi dirigevo da lui? Non lo sapevo. Non l'avevo scelto io.

O, almeno, non coscientemente. I miei pensieri avevano fatto "click" ed avevo subito capito dove andare.

Arrivai. Mi avvicinai alla prima porta a sinistra. Deglutii e battei il pugno sulla porta una volta.

Tum.

Due volte.

Tum. Tum

Tre volte.

Tum. Tum. Tum.

Mi guardai intorno, girai lo sguardo.

Quel pianerottolo era molto più piccolo del solito.

La porta di Daemon era l'unica pulita, senza ragnatele, il pomello era fatto di legno ed aveva uno spioncino molto più basso di quello in camera mia.

Le altre porte erano spente, non venivano toccate da secoli.

I materiali dei pomelli non erano distinguibili tanto ch'erano coperti di polvere, insetti morti e ragnatele.

Mi stava per salire un conato di vomito lungo la gola, e Daemon aprì la porta.

Aveva i capelli del tutto disordinati, una ciocca a nord e l'altra a sud.

Gli occhi erano assonnati, le guance rosee e le labbra rosse e screpolate.

Si passò la lingua per il labbro inferiore e mi sorrise.

Aveva un aspetto stanco, la camicia bianca ma visibilmente bagnata aveva i primi quattro bottoni, dall'alto, aperti.

Solo in quel momento notai i suoi addominali.

Non erano troppo scolpiti, ma c'erano.

«Stramboide. Che c'è? Ora hai voglia di stare con qualcuno?» Chiese, ironico.

Io alzai gli occhi al cielo.

«Scusa, per ieri. Non avevo davvero voglia di avere compagnia. A te non viene mai voglia di stare da solo?»

Tutum: a kingdom in riskDove le storie prendono vita. Scoprilo ora