Estenuante prigionia

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Nalor

Erano due giorni consecutivi che Cumeret non spiaccicava mezza parola.

Non avevo il coraggio di chiedergli qualcosa, sapevo quale sarebbe stato il mio castigo, e non me la sentivo.

In quelle situazioni, la mente vagava.

Pensavo ai ragazzi.

Ai Mufatale.

A Dove.

A mamma e papà.

Alle parole di Cumeret:

«Tu sì che non hai risentimenti».

Avrei dovuto avere risentimenti verso Dove? Certo, nessuno ha la colpa di essere nato. Neanche di essere nato in un modo diverso. Ma, mi aveva lasciato come un cane malato, quando i nostri genitori avevano scelto di abbandonarmi.

'Non è stata colpa tua'.

Mi ripetevo. Cercavo di ripeterlo così tanto, al massimo volume, sperando che la voce che mi diceva il contrario si spegnesse.

Ma quest'ultima urlava tanto, troppo forte.

Era inarrestabile.

'Nessuno controlla il proprio destino'.

Io avrei voluto farlo.

Avrei voluto riuscirci dai sei anni.

Da quando ero stato nominato reietto. Ma i miei vantaggi non lo prevedevano.

Non mi aiutavano a non mangiarmi ed uccidermi dentro.

E forse era quella la cosa brutta, che non mi ero fatto avanti per salvare Dove.

Lo avevo fatto per essere trattato male.

Perché sentivo di meritarlo.

Perché sapevo di meritarlo.

Le viscere si contraevano ogni volta che ricordavo l'ultimo pasto che avevo fatto.

Una settimana e un giorno.

Ed il fantomatico cibo che avevo ingerito, fu un biscotto al burro con degli antidolorifici.

Per evitare che continuassi ad urlare dal dolore.

Avrei voluto urlare al mondo quanto Prigus fosse una merda.

Un fottuto pazzo macabro, che avrebbe fatto qualsiasi cosa per punire i "non-puri".

Anche uccidere il loro padre, nonostante fosse suo padre. Perché Cumeret aveva ragione, Prigus odiava più lui che qualsiasi altra persona.

Perché per lui era stato una delusione.

E, essendo il mio futuro re, non potevo esserne più felice.

Cumeret

Sentivo ancora il bruciore del sangue che scorreva sulle cicatrici non ancora chiuse del tutto. La paura di provare di nuovo il dolore del ferro, alcune volte rovente, colpirmi.

Ormai avevo perso ogni speranza, ogni motivo per continuare a credere nella felicità.

Ogni volta che vedevo Oak entrare, semplicemente mi aggrappavo al ricordo delle mie rose verdi.

Avevo conati di vomito ogni volta che sentivo la porta della cella chiudersi ed i passi allontanarsi, ma non avevo più nulla da buttare fuori.

C'era soltanto un gigante vomito di parole, che mi saliva e mi usurava la gola ogni volta che pensavo a com'era la vita prima della prigione, ma non potevo parlare.

Se avessi parlato, sarebbero stati ancora più cattivi.

Ancora più forti. Più tremendi.

Più macabri.

Tossii poche volte, poi posai di nuovo la testa sulla pietra umida, guardando un ragno scendere dal tetto.

«Amico». Dissi, soltanto muovendo il labiale.

Quell'insetto orribile e letale, per certi versi, era l'unica compagnia su cui potevo contare, e faceva schifo come sensazione.

'Un ragno come amico?'...

'Perché ho scelto di venire? Perché mi sono fatto questo?'

'Perché non hai scelto tu il tuo destino'.

Tutum: a kingdom in riskDove le storie prendono vita. Scoprilo ora