Città

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Ignis

Ragazza normale. Cos'è una ragazza normale? Forse una ragazza che vive in città, una ragazza che passa le giornate a cucinare, o a ricevere pretendenti.

Io sicuramente non ero una ragazza normale.
Caligo mi guardava di sottecchi, era ovvio che mi volesse parlare; non avrei detto niente comunque. Cosa avrei potuto dire?
Sentivo gli occhi della gente su di me, anche se ero sicura che nessuno mi stesse prestando molta attenzione.

Camminavo a passo molto lento, quasi sperando di svegliarmi da quel brutto sogno.

Le pietre della strada si facevano sempre più vicine, e la mia paura diventava sempre più grande; cosa potevo fare? Non conoscevo nessuno, e nessuno voleva conoscermi. Sentii un groppo in gola.

Ci mancava solo questa: dovevo tossire.

Chissà quante persone si sarebbero girate a guardare, quante avrebbero riso sotto i baffi. Ci ero abituata, ad essere puntata, fissata, derisa. Ma di solito le persone che lo facevano erano abitanti del Tutum, erano Teprei, o forse qualche Munetico che non aveva paura di essere additato per aver guardato una svergognata del mio calibro; un'umana.
Misi una mano sulle labbra con disinvoltura, mi girai e presi un bel respiro: poi cacciai il groppo in gola che avevo, non fece molto rumore, ma tanto abbastanza per far girare Caligo. Mi guardò per qualche secondo e poi continuò a camminare.
Volevo bene a Caligo, quel momento mi spaventava.

Mi sentivo a disagio, e non sapevo neanche perché. Certo, sentirsi a disagio in un posto mai esplorato è normale, ma perché mi sentivo a disagio con mio fratello? Cercai di non pensarci e continuai a guardarmi avanti.

Eravamo sul ciglio della strada, non c'era niente di speciale. Un villaggio povero con persone che si fingono borghesi. C'era una lunga stradina contornata da case e negozi, e potevo già vedere la fine del sentiero: una grande chiesa. Mai grande quando il Tutum, sia chiaro.
Mentre la giornata si scuriva le persone cominciavano ad uscire, ragazze con gli ombrellini appoggiati sulla spalla, lavoratori, uomini a cavallo ed in carrozza e madri con bambini. Guardai tutte le persone che incrociavo negli occhi, chissà chi erano: che personalità avevano, cosa li piaceva fare, cosa pensavano quando guardavano me.

Le ragazze attorno a me indossavano vestiti con gonne di tulle, maniche a sbuffo, corsetti con bordi in pizzo; io portavo un vestito simile ad una tovaglia giallo ocra, e stava anche toccando il pavimento sporco.

Avevo le spalle scoperte, la pelle d'oca sulle braccia. Non sembravo una ragazza, non lo ero.

«Ora che facciamo?» Caligo ruppe il silenzio, mi fece sobbalzare, ma gli fui grata. Non sopportavo più il silenzio che ci avvolgeva.

«Non ne ho idea». Bisbigliai. «Pensi che mamma e papà avrebbero dovuto dircelo, vero?» Continuai.

«Forse sì».

Mi guardai intorno, dove si dormiva quando non si aveva una casa? Mi avvicinai di più a Cal, gli misi la mano attorno al polso.

«Che ore sono, secondo te?» Chiesi guardandomi intorno, il buio sopraggiungeva sulla città e mi angosciava più di qualunque cosa.

«Chiediamo a qualcuno?» Mi suggerì, lo guardai per un millisecondo e poi posai la testa sul suo braccio come segno di consenso.

Cal era più alto di me, non sarei riuscita a mettergli la testa sulla spalla.

«Fa freddo, eh?» Bisbigliò.

«Già» Sospirai. «C'è una signora che ci guarda». Dissi, deglutendo.

Spalancai gli occhi, ci fissava da un angolo della strada, aveva le due mani sulla spalla di un ragazzino davanti a lei.

Non riuscivo a distinguere il suo viso fra la nebbia e la condensa che mi ritrovavo davanti appena respiravo, ma il suo vestito verde smeraldo si distingueva a chilometri di distanza; il bambino, invece, portava giacca e cravatta.

Tutum: a kingdom in riskDove le storie prendono vita. Scoprilo ora