Castighi di tortura

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Cumeret

Era sera ed ero nella cella da poche ore.

Mi avevano portato nell'ultima stanza dell'ultimo piano della torre.

Morivo di fame.

Sapevo che nella cella accanto c'era qualcuno, ma la tenda era chiusa, ed io avevo le mani legate alla sedia dove mi avevano messo, e non mi muovevo da quando mi avevano lasciato lì.

La mente vagava.

'Avrò fatto bene a lasciarli da soli?'

Chiedevo a me stesso.

'Non potevi fare diversamente'.

Mi risposi.

Mi mancava Ciditia, mi mancava la mia stanza, mi mancava vedere il cielo del mio regno, e non volevo rimanere lì da solo.

Sentivo le guardie andare e venire dalla cella accanto alla mia.

Vidi una guardia andare via, poi nessuna voce.

Rischiai.

«Posso sapere chi c'è qui accanto?» Chiesi.

Avevo il cuore a mille.

Se ci fosse stata ancora una guardia lì dentro, sarebbe stato un grande problema.

«Cumeret?» Un colpo.

Mi conosceva.

Chi diavolo era?

«Sono Nalor». Uno spiraglio di luce.

«Che ci fai là?» Chiesi, emozionato.

«Stavano per incarcerare Dove pensando che fosse stata lei ad insegnare ai ragazzi i vantaggi, ma mi sono fatto avanti».

«Tu sì che non hai risentimenti». Sbuffai.

«Non è stata colpa sua, ma dei miei "genitori"».

«Già, hai ragione. Da quanto sei qui?» Chiesi, sperando in un numero un po' più grande del mio.

«Una settimana. Cosa vuoi sapere?» Nalor mi capiva al volo.

«Cosa ti hanno fatto?» Lui rise, come se fossero troppe da elencarle.

«Non mangio un pasto completo da una settimana e mi fanno vedere le guardie che mangiano, sono rimasto al buio per due giorni consecutivi, se parlo mi prendono a botte. Oltre questo, niente di ché. Ma tu sei figlio di Prigus; la cosa peggiore che ti faranno sarà non mettere abbastanza sale sulla bistecca». Assicura, ma non ne ero così sicuro: Prigus conservava un profondo odio per me, perché l'avevo "tradito".

Deglutii.

Per lo stile di vita che avevo adottato in quei sei mesi di ritorno alla torre, quello che avevano fatto a Nalor era già troppo.

Avevo il voltastomaco se pensavo ad Ignis e Caligo senza un padre, ma non sarebbe mai successo, lo sapevo.

«E tu? Perché qui?» Mi chiese.

«Parvus mi ha chiesto una richiesta per dare ai ragazzi un indizio su quello da fare nella foresta dei centauri, la richiesta era di farmi incarcerare come se mi avesse denunciato lui, per una ricompensa». Spiegai, anche se, solo ripensarci mi faceva sentire un fallito.

Avevo accettato di diventare carne da macello, e l'avevo fatto senza pudore, come se fosse stato un gesto eroico.

In quel suicidio non c'era niente di eroico.

«Tipico di gente come Parvus. È un Tepreo di niente, e tu non ti meriti questo».

«Beh, non avrò una gran opinione di me stesso, ma so che non me lo merito. E Prigus non mi risparmierà mai, anzi. Mi torturerà più di te. E ne sono sicuro». Affermai.

Ne ero davvero sicuro: mi odiava, ed io odiavo lui.

Nessuno dei due lo aveva mai ammesso, ma si sapeva.

«Può essere, ma ne uscirai bene, Cumeret. Lo so. Sei coraggioso. Sei un re, nonostante tu non sia ancora stato incoronato».

«Grazie, Nal. E grazie per aver tenuto d'occhio i miei ragazzi quando non potevo». Ringraziai, ero sincero.

Non mi ero perdonato ed avevo giurato di non perdonarmi mai per aver abbandonato i miei ragazzi... avrei potuto fare di tutto, costruire una casa, passare su qualsiasi persona per proteggerli, ma m'ero comportato da vigliacco, e me li ero fatti scappare via.

Mi facevo schifo per quello.

«Non potevo non farlo. Se non fosse stato per te ora non sarei vivo, nessuno avrebbe combattuto per farmi rimanere al Tutum».

«Già, è perché questa società è cocciuta. Tu apporti molto di più di qualsiasi altra persona al Tutum. Sei speciale per questo posto».

«Devo dire che è bello sentirselo dire, dopo aver passato anni a sacrificarmi per salvare queste terre». Ammise. Un lungo silenzio cadde fra di noi. Mi guardavo intorno.

«Comunque, ho visto le rose verdi che sbocciavano, prima di essere incarcerato. Sei un gran padre». Sorrisi.

Non aveva ragione, ma era bello sentirselo dire.

«Nal, anche tu sei unico e raro come una rosa verde. E mi dispiace che tu non abbia mai avuto nessuno che te lo dicesse». Sussurrai.

'E neanche io l'ho avuto, quel qualcuno che mi urlasse di essere speciale fino a convincermi ed a scacciare via quella voce che diceva il contrario'.

«Tutti quelli che non l'hanno avuto, quel qualcuno, se lo meritano. A prescindere da chi siano». Affermò, sbadigliando.

Sentii dei passi, ma poi smisero.

«Hai ragione».

«Non si parla in cella!» Urlò una voce.

Il cuore cominciò a battere a mille.

Un omone, grosso e alto più di tre metri e mezzo, abbastanza per un Munetico, sbatté il pugno sulla pietra.

«Sei arrivato poche ore fa e già vuoi una lezione, eh? Non m'avevano detto che». L'omone entrò ed afferrò un grosso pezzo di ferro. «Il figlio del re fosse così cocciuto». Continuò. Spalancai gli occhi.

«Stavo chiedendo una cosa...» Stavo per continuare, ma l'uomo cominciò a sbattere il pezzo di ferro sulla mia schiena.

Mai provato tanto dolore.

Nalor

Dalla cella di Cumeret usciva ogni tipo di rumore.

La risata nascosta di Oak, la guarda, le urla di dolore e disperazione del figlio del re... All'inizio erano forti, supplicavano pietà, chiedevano di essere risparmiate, poi cessarono e si trasformarono in un rumoroso e triste pianto.

Poi un tonfo, altre urla, più disperate di prima, che recitavano le sue ultime volontà.

Che chiedevano aiuto.

Che supplicavano la morte per non sopportare quel dolore.

Sentire l'uomo che più stimavo chiedere di morire era straziante.

Dopo molti e lunghi minuti, il vuoto, il silenzio.

Solo il rumore della porta della cella sbattere e dei piccoli singhiozzi qua e là.

Non potergli chiedere come stava era un incubo orribile e tremendo.

Era più orribile sapere che mi sarebbe toccata la stessa sorte in pochi minuti. 

Tutum: a kingdom in riskDove le storie prendono vita. Scoprilo ora