Non essere abbastanza

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Ignis

«Nal, non ci riesco, sono stufa». Sbuffai.

Quella benedetta piuma di colomba non si muoveva dalla superficie in legno del tavolo.

Erano dieci minuti che Nalor ci stava mettendo alla prova con una piccola, prima, lezione. Dovevamo far volare una stupidissima piuma puzzolente.

Fissai quella di Caligo volare in alto, alzai lo sguardo per vedere come si avvicinava a uno degli scaffali sopra di me e si scuoteva.

Sembrava che volesse farmi il verso, darmi fastidio.

Sospirai ed inspirai, trattenendo il fiato.

«Bravo, Caligo!» Lo incitò Nalor.

Mi passai una mano sul viso per evitare di fare brutte facce davanti a tutti.

Caligo non aveva mai fatto qualcosa meglio di me.

Ero stata la prima a camminare, a correre, a mangiare da sola, a ridere.

La migliore a leggere, a parlare con una dizione migliore, ad imparare le nozioni con cui ci deliziava papà.

Era imbarazzante, tutto quello che stava succedendo durante le lezioni era imbarazzante.

«Vado a prepararmi per dormire». Dissi alzandomi, tra lo sbraitare, cominciare a piangere per il nervosismo e scappare via, decisi l'ultima opzione.

«Non sono neanche le otto di sera. Ti senti bene?» Mi chiese Nalor, sospirai.

«Sì, ma domani devo svegliarmi presto. Come sempre d'altronde. Questa casa – che non è neanche la mia – non si mantiene sistemata da sola». Uscii dallo studio e corsi in camera da letto.

Mi tirai di dosso i vestiti scomodi che portavo dalle prime luci dell'alba di quella mattina, mi raccolsi i capelli, con un fermaglio, in una croccia del tutto disordinato e mi sciacquai la faccia. Mi sdraiai velocemente sul tappeto.

Il fermaglio mi stava letteralmente perforando la scatola cranica.

In quel momento avrei soltanto voluto urlare.

Mi sdraiai sullo stomaco e chiusi gli occhi. La cosa migliore che avrei potuto fare era dormire, seguita dall'urlare a Nalor di farsi i fatti suoi ed a lasciare Caligo da solo nella missione – per altro non richiesta né accettata da nessuno dei due – che ci aspettava da un momento all'altro.

Soffiai su un gigante libro beige, prima di farlo la copertina risultava di un grigio scuro.

«Chissà da quanto tempo questo libro non viene aperto, no?» Chiesi, non mi aspettavo una risposta, alla fine era sicuramente tanto tempo che quel manuale non veniva considerato.

Mi sentivo male per lui. Continuai a soffiare, la polvere non si muoveva dal titolo. Era di un colore scuro, violaceo, e riuscivo a leggere solo la prima lettera: "I".

Cominciai a sfregare con l'indice sulla superficie ruvida della consonante che veniva celata dallo sporco di decenni.

«Mio dio, vieni via». Iniziai ad irrigidirmi.

Serrai le palpebre.

«Perché anche una cosa così banale come pulire un libro mi riesce difficile? Perché? Perché sono così?»

Continuai a sfregare.

Il titolo finalmente appariva chiaro e tondo. Sospirai e buttai il manuale sul pavimento.

La scritta color viola scuro recitava: "Ignis: sei inutile".

Provai a deglutire. Avevo un groppo in gola.

Mi alzai ed afferrai un altro libro dalla libreria.

Ci soffiai, era di un color cremisi. Il titolo bianco latte diceva: "Nessuno ha bisogno di te".

Su un altro c'era la scritta: "Ti odiano tutti".

"Se non esistessi non cambierebbe molto".

"Ignis: non sei abbastanza".

Non riuscivo più a respirare, mi sentivo soffocare. Spalancai gli occhi.

La mancanza di sonno mi obbligava a tenere le palpebre aperte.

«Un sogno, tipico». Balbettai fra me e me.

Mi alzai nonostante non fosse ora di mettersi a lavoro.

Caligo era sdraiato accanto a me e russava, non avrei potuto avere una conferma migliore del suo stato dormiente.

Cominciai a camminare in tondo per la stanza, pensavo al sogno: la metà di quest'ultimo si era rinchiusa in un baule nel mio cervello, quello che ricordavo era la paura di non essere abbastanza, di non essere quello che si spera da una ragazza nata nel Tutum.

Dovevo farcela, ad essere abbastanza, perché io ero abbastanza. Lo sapevo.

«Dai, Ig, ce la puoi fare». Dissi fra me e me.

Strappai un piccolo pezzo di stoffa dal mio vestito.

Deglutii.

Cosa avrei fatto se non ci fossi riuscita? Lo posai accanto al lavandino.

Lo fissai inesorabilmente, come se fosse l'artefice del mio futuro e di tutto quello che ne sarebbe derivato. Mi allontanai di un paio di passi.

Feci attenzione a non respirare troppo forte e mi concentrai sul pezzo di seta color panna.

Lo faccio?

«Lo faccio». Bisbigliai.

Socchiusi gli occhi.

Concentrai tutta la mia energia su quel pezzo di stoffa, quel piccolo pezzo di seta cui esistenza non importava a nessuno mi sarebbe costata la vita, la vita a cui sentivo di essere destinata, ma gli altri mi dicevano di no.

Col tempo avevo cominciato ad accettarlo, di non rimanerci male al pensiero di essere una ragazzina volgare e senza alcuna passione né sentimento per l'intelligenza come tutte le altre. Sentii i muscoli delle braccia e delle cosce irrigidirsi.

La testa mi bruciava, un groppo in gola mi impediva di respirare regolarmente; ad ogni modo in quel momento il respirare diventava un'azione non così tanto importante.

«Ti prego». Bisbigliai.

Sentivo la stanza girare, le ginocchia cedevano.

Tutta la mia vita era finalizzata a far volare quell'insignificante pezzettino di seta che tutto il resto delle mie funzioni vitali si dimenticarono di funzionare.

La stoffa cominciava a tremare, non volava, ma si muoveva.

La gola mi bruciava, non ci passava della saliva da più di un minuto.

Gli occhi lacrimavano.

Vidi il pezzo di stoffa muoversi ancora di più, uno dei suoi vertici cominciava a staccarsi dalla superficie dove era poggiato.

Il secondo vertice si alzava e sentii le caviglie sciogliersi, le mie ginocchia ed il pavimento non erano più così distanti.

Tutti i vertici erano in alto.

Non sentivo più il mio cuore battere, il sangue smise di scorrere nelle mie vene.

Vidi il pezzo di stoffa alzarsi di, massimo, due centimetri.

Subito dopo caddi con le ginocchia sul parquet. Non vedevo più nulla.

L'ultima cosa che sentii fu la mia testa sbattere sul pavimento.

Tutum: a kingdom in riskDove le storie prendono vita. Scoprilo ora