~ Capitolo undici ~

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Il castello era come sempre circondato dalla nebbia. Il giovane aveva appena otto anni, e la mattina l'aveva colto a guardarsi allo specchio, mentre, quasi per gioco, studiava con attenzione le suoi peculiari iridi chiare. I suoi amici gliele avevano fatte notare già più volte, e gli avevano esposto le loro teorie a riguardo.

«Forse quand'eri piccolo una palla di neve ti ha colpito in faccia e ti ha gelato gli occhi» aveva proposto Sajmer, che per concentrarsi si pasticciava il mento con le dita. Lyele aveva approvato con un cenno della testa.

«Certo che no! - era sbottato Mikor, sostenuto dal fratello Jeshean - è ovvio che non è la risposta giusta! È più probabile che tu sia nato con gli occhi blu come i miei e che poi si siano scoloriti».

Tuttavia Erik non condivideva nessuna delle due teorie degli amici. Se davvero la neve gli avesse gelato le orbite oculari, non avrebbe forse sentito freddo ogni volta che portava le mani a coprirsi il volto? E non credeva che le iridi si potessero schiarire in così poco tempo. Aveva sempre sospettato che ci fosse una motivazione più profonda, misteriosa, ma non riusciva a capire quale. Aveva chiesto al valletto di chiamare il padre, cosicché potesse rivolgergli una domanda che gli frullava in testa da un po' di tempo.

Quando lo vide arrivare con in volto un sorriso affettuoso, il bambino si affrettò a rivolgergli il suo interrogativo: «Padre, ma cos'hanno di particolare i miei occhi? Perché nessun altro li possiede?»

L'uomo gli poggiò le mani sulle spalle e sussurrò: «Aikir...».

«Aikir? Ma padre, mi chiamo Erik!» lo corresse il ragazzino, alzando un sopracciglio. Non era la prima volta che il genitore sbagliava il suo nome. E pensare che le due parole non erano così simili!

Il re si rabbuiò per un attimo, per poi scuotere la testa e proseguire, rimanendo sul vago come già le volte precedenti: «Oh, Erik, i tuoi occhi sono molto difficili da trovare, ma non sei l'unico che li possiede. C'è una leggenda dietro il loro colore, e forse un giorno, quando sarai abbastanza grande per capire, te la racconterò. Ora sei troppo piccolo».

«Non è vero! Io non sono piccolo! Io sono grande! Se c'è qualcosa che devo sapere, dimmelo ora!» gridò il giovane alzandosi in piedi a fronteggiare il più grande. Ormai si era impuntato: non si sarebbe arreso fino a quando non avesse ottenuto una risposta soddisfacente.

«Te lo prometto, Ai... Erik. Un giorno ti spiegherò tutto» concluse Okumar uscendo dalla stanza, abbandonando il figlioletto ai suoi dubbi, destinati a non venire colmati.

Il ricordo finì e la curiosità del giovane aumentò: forse, finalmente, avrebbe scoperto quella verità a lungo nascosta. Ma era pronto a sentirla? Era preparato a qualunque cosa avrebbe potuto venire a sapere? Un'angoscia ancora più pressante gli attanagliò le viscere. La realtà era davvero così terribile come sembrava? Fino a quel momento aveva vissuto in un lungo, idilliaco sogno? Doveva essere così, altrimenti due fedeli servitori di suo padre, che avrebbero dovuto essere suoi alleati, non avrebbero tentato di troncare in quel modo la sua giovane vita.

«Io... io non so niente» balbettò inghiottendo la sua paura, che gli piombò nello stomaco come una pietra. Desiderava solo continuare a sognare: non voleva essere risvegliato così brutalmente, trascinato a forza in una realtà che non aveva mai conosciuto.

Riwal lo guardò, carico d'odio e disprezzo. Poi scoppiò in una risata crudele, fredda, assetata di sangue. «Ne ero sicuro. Me l'avevi già dimostrato prima, quando eri apparso così stupito di fronte alla mia volontà di ucciderti. Non vedi tutta questa folla? Non vedi i loro sguardi atterriti? Non vedi che non hanno neanche il coraggio di fuggire? Hanno paura di te. Tu sei stato maledetto, mio "povero figliolo", e quelli come te meritano la morte».

L'erede di Frost SoulDove le storie prendono vita. Scoprilo ora