~ Capitolo ventitré ~

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Buio.

Un vortice di tenebre lo avvolgeva, trascinandolo con sé, ignorando la sua strenua quanto inutile resistenza. Attorno a lui turbinavano immagini sfocate che non riusciva a riconoscere. Viaggiava con il pensiero, nel tempo e nello spazio.

Poi, una luce si spalancò davanti ai suoi occhi.

Senza pensarci due volte, scattò in corsa verso quella, le mani protese in avanti e il volto contratto dallo sforzo. Quando riuscì a raggiungerla, il suo intenso bagliore fiammeggiante lo inghiottì, facendolo ululare per il dolore.

Passarono alcuni istanti simili all'agonia, mentre vedeva il suo corpo venire consumato da quel fuoco bianco. In seguito, ogni dolore cessò, e tornò a vedere. Per qualche terribile momento credette di essere morto, ma ciò che scorse quando quella patina di sofferenza si dileguò dalle sue pupille lo terrorizzò ancora di più: non si trovava nell'Abjiondra, nella capanna di fortuna che si era così faticosamente costruito.

Era a Rocca di Ghiaccio.

In particolare, su una delle torri di quello che un tempo era stato il suo palazzo.

«Ma che...» uggiolò, preoccupato. «Io non dovrei essere qui! E se mi vedessero? E se mi denunciassero? Riwal non esiterebbe a terminare ciò che aveva cominciato! Oh, santi Naxum, è un bel casino!»

Si affacciò al torrione per sincerarsi che non vi fosse alcuna sentinella appostata presso il portone per la veglia notturna. Gli mancò il fiato quando ne vide una decina, sparpagliate attorno al perimetro del castello. "Riwal deve averli incaricati di sorvegliare la rocca in caso di un mio ritorno improvviso. Sono spacciato!" pensò, sconsolato.

Udì dei passi risuonare alle sue spalle. Sussultò e, in preda al panico, si accucciò in un angolo, cercando di farsi piccolo e sperando di non essere visto. La scena che gli si presentò dinnanzi lo sconvolse profondamente.

Era notte fonda, come si poteva notare dal colore scuro assunto dalla nebbia, una tinta che ben si intonava con i cupi occhi di un ragazzo, che lasciava saettare lo sguardo attorno a sé, quasi impaurito. Il volto era contratto in una smorfia, i denti serrati, e il fiato li attraversava in un sibilo sofferente. Percorreva alcuni passi e poi si voltava, tornando indietro lungo la stessa scia.

«Adrén...» bisbigliò Erik, riconoscendo il fratello. Ma come mai era così nervoso? La sua scomparsa l'aveva sconvolto a tal punto?

Notò poi un dettaglio peculiare: un medaglione di zaffiro che scintillava prepotentemente, emanando bagliori azzurri e pulsando come un piccolo cuore di pietra. La sua luce era potente, ma fredda.

Un baluginio più acceso si sprigionò, e Adrén emise un grido roco, subito spezzato e assorbito dalla nebbia. Corse verso una delle guglie che erano vicine al più giovane e vi si appoggiò con tutte le forze, chinando il capo e boccheggiando rumorosamente.

Erik fu sorpreso di non essere notato, poi pensò: "È solo un sogno. Realistico, certo, ma un sogno".

«Ma quale sogno?» si fece vivo il suo spirito. «Questa è la realtà, Nakyen.»

"Impossibile. Fino a poco fa ero nella foresta."

«Non rammenti la tua promessa, Nakyen? Devi trovare il coraggio di accettare l'evidenza, per quanto possa sembrare assurda.»

"L'evidenza è che questo è un sogno, sciocca anima" replicò mentalmente il ragazzo, rassicurato dalla convinzione con cui aveva pensato quelle parole.

Il suo sollievo, però, si dissolse, non appena tornò a sentire i rantoli del fratello, le cui braccia tremavano forte, come se fossero state ramoscelli sul punto di cedere e spezzarsi. "Perché soffre così? Cosa gli sta succedendo?" Si soffermò sui suoi occhi e vide che lampeggiavano in modo sinistro, esattamente come quell'arcano medaglione.

L'erede di Frost SoulDove le storie prendono vita. Scoprilo ora