~ Capitolo trentaquattro ~

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«Ma allora è vero... è davvero lui...»

«L'erede di Frost Soul, colui che ci libererà...»

La vista di Erik tornò, e si trovò davanti tre paia di pupille appuntite.

Hector, Joyra, e persino Vjana, chini di fronte a lui per evitare i rami bassi e ricolmi di aghi, lo ammiravano attoniti, al pari di una creatura appena scoperta, non si sa ancora se benigna o maligna.

Come un carcerato guarda con terrore gli aguzzini rivolgergli contro i ferri, pronti a torturarlo per fargli confessare un qualche reato che non ha commesso, così Erik rimase a contemplare quegli aculei rivolti nella sua direzione, senza la forza di parlare.

«Ehilà, Erik! Come ci si sente a essere l'erede di Frost Soul?» ruppe il silenzio Hector, con la sua usuale allegria.

«Io? Erede? Non so di cosa tu stia parlando» borbottò, massaggiandosi la testa laddove si trovava la benda. «Io non sono l'erede di nessuno! Ed è meglio così, a dire la verità: detesto avere delle responsabilità!»

«Ma no, Erik, tu non capisci! Tu sei l'erede, il leggendario liberatore, colui che porrà fine alla maledizione e ci libererà tutti!» esclamò Joyra, sorridente come suo fratello. Erano davvero simili, entrambi con quell'espressione raggiante, per quanto in realtà fossero come il sole e la luna, la notte e il giorno, il fuoco e l'acqua.

«Non penso proprio...» replicò il principe, rivoltandosi nel giaciglio e cospargendosi i vestiti di matasse verdognole di fragrante muschio.

«Erik! Erik, tu sei importante per noi!» provò ancora a convincerlo Hector, ma lui era irremovibile e, abituato a disobbedire, non si fece problemi a ignorarlo.

«Lasciate che parli con me.» Un sussurro affettuoso, candido, evanescente. Sconosciuto, per quanto già udito una volta.

Da dietro le effigi dei tre ragazzi si materializzò la scattante figura di una lupa, il cui pelo vaporoso sembrava essere stato dipinto di bianco e d'argento dalla mano agile e ispirata di una luna splendente. Le ali parevano quelle di un cigno, ricoperte di soffici piume terminanti in un intrigato ricamo d'inchiostro. Le iridi erano ruscelli di montagna, pallidi raggi invernali, rocce antiche, sigilli di passato e futuro. Incedeva a passo felpato, elegante, sfiorando appena il suolo coi cuscinetti morbidi, flessuosa come una gatta. Era di dimensioni inferiori rispetto a Rhyeno, per cui riuscì a raggiungere il gruppetto senza piegarsi.

I tre giovani obbedirono alla Keshwn senza fiatare, rivolgendole un breve inchino e sgattaiolando fuori dall'ombroso rifugio. Erik, invece, rimase immobile, incantato, estasiato da quella visione sublime, eterea, soprannaturale: un angelo portatore di salvezza, rivelatore di segreti. Un soffio di verità.

«Salve a te, giovane dagli occhi chiari. Certo vorrai sapere dove ti trovi, e come sei giunto qui. Ebbene, in questo momento siamo nella valle del Kental, dove i Keshwn stabilirono la loro dimora molti anni or sono. Ormai siamo rimasti in pochi, non più di una ventina» mormorò la lupa, la voce un vento di luna. Erik aguzzò la vista per ammirare il paesaggio circostante e adocchiò un brulicare di creature delle più svariate dimensioni. Piuttosto vicino al suo larice era appostato un maschio dal manto nero pece, che scrutava i dintorni con le lucenti iridi ambrate. Scorse poi tre esemplari più piccoli, forse dei cuccioli, combattere per gioco sotto le fronde di un abete, mentre due anziani discutevano non molto lontano da lui. Uno sparuto gruppetto di adulti era appena rientrato nella valle, stringendo tra le fauci fagottini di foglie ricolmi, forse, di cibo.

La Keshwn proseguì: «Sei arrivato qui sulla groppa del nostro capo Rhyeno, questa mattina. Tarven, il nostro guaritore – puntò il Keshwn dal manto buio accucciato lì vicino – ti ha curato con il suo unguento più potente, capace di rimarginare ogni ferita. Ora non sei più in pericolo, e puoi anche togliere quell'ingombrante fasciatura e sgranocchiare qualcosa». Gli indicò con il muso una tavoletta di legno su cui erano poggiati degli oggetti bianchi e fibrosi, dall'aspetto poco invitante. Erik portò le mani alla benda e la slegò: facendolo, si rese conto di non provare più alcun dolore: anzi, stava meglio di quando viveva ancora al castello! Si rese conto di avere una gran fame e, senza il minimo ribrezzo, afferrò uno dei bastoncini e lo morse: era piuttosto duro, ma il sapore era delizioso!

L'erede di Frost SoulDove le storie prendono vita. Scoprilo ora