~ Capitolo ventidue ~

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 «Oh, che bellezza. Ora siamo di nuovo soli» gongolò l'anima di Erik.

«Sì, ma non ho voglia di parlare con te» rispose il ragazzo, infastidito.

«Come vuoi, Nakyen, ma non sai cosa ti perdi! Sai, mentre eri impegnato a fantasticare mi è venuta una gran voglia di sbeffeggiarti, perciò ho pensato a qualche nuovo insulto. Non ti va di sentirli?» propose lo spirito, con tono che sembrava supplichevole, ma che era in realtà solo ironico.

«No, grazie.»

«Dai, solo uno! Li ho realizzati apposta per te! Te l'ho mai detto che sei un ingrato?»

«Va' a quel paese!»

«No, vacci tu! Sai che le mie gambe non mi reggono, e quel paese deve essere lontano...»

Erik, non avendo più la minima intenzione di ascoltare le ingiuriose parole di quello spirito sgarbato, si alzò in piedi per andare a cercare dei rami sufficientemente robusti perché potessero dare origine a una capanna resistente alle intemperie. Ne raccattò cinque, sottratti a un abete abbattuto da un fulmine, e, dopo esserseli caricati sulle braccia, li riportò all'accampamento. Recuperò anche qualche fronda più sottile e flessibile, da poter sfruttare come corda per tenere uniti i due fianchi del rifugio. Lasciò cadere il tutto sul lato destro della capanna di Vjana, senza neanche pensare che, forse, avrebbe fatto meglio ad adagiarli con più calma. Erano piuttosto pesanti e, toccando terra, emisero un frastuono analogo a quello di una frana di ridotta portata, alzando un turbine di polvere e aghi, che volteggiarono per qualche istante, per poi appoggiarsi sui suoi piedi.

Ripeté la procedura ancora diverse volte, finché non arrivò ad avere accumulato una catasta di legname di dimensioni piuttosto ingenti. Si passò una mano sulla fronte imperlata di sudore e sorrise, ammirando soddisfatto il proprio lavoro. "Andando avanti così, diventerò più muscoloso di quel pazzo di Riwal!" pensò, ridendo.

Determinato a dimostrare le proprie capacità e ritenendo di essere capace a costruirsi una capanna confortevole, afferrò due rami spessi e uno flessibile e si cimentò nel suo primo esperimento di architettura, provando a disporli a formare un triangolo con il terreno. Tuttavia, non gli riuscì di stringere forte a sufficienza la corda e la struttura crollò rovinosamente prima ancora che avesse potuto cominciarla. Erik mugugnò un'imprecazione, sbattendo nervoso il pugno a terra. Tuttavia, non avendo intenzione di arrendersi, riprovò, sempre con scarso successo. "Accidenti! Da quando costruirsi una casa è così estenuante?" ansimò dopo l'ennesimo tentativo andato a vuoto.

«Non lo è, sei tu che sei debole» lo canzonò il suo spirito.

Il ragazzo iniziava a innervosirsi e, memore di ciò che la rabbia gli aveva comportato nelle occasioni precedenti, decise di smettere e di attendere il ritorno della compagna. Si alzò tra le risate di scherno della sua anima, si accomodò sulla panca e attese. Guardò ancora un attimo la sua catasta di legno e i resti delle sue fallimentari prove di architettura, rimpiangendo di non aver mai chiesto a Mikor e Sajmer, i costruttori del gruppo, come fare a svolgere quel lavoro solo in apparenza semplice.

Percorse il contorno dell'accampamento con sguardo vagante, cogliendo, da dietro una coltre di larici, gli occhi azzurri e timidi di Vjana. La sua esile figura si confondeva perfettamente tra le ricche fronde e le cortecce grinzose degli alberi. Non appena gli fu possibile vedere il corpicino nella sua interezza, Erik si parò davanti al mucchio di legname che avrebbe dovuto essere la sua capanna e salutò la fanciulla con un cenno della mano.

«Oh, Vjana! Già di ritorno?» gridò il ragazzo, lanciando ogni tanto qualche occhiata sfuggente alla ragione della sua penosa sconfitta. Lei non doveva vedere niente: ne andava del suo onore.

L'erede di Frost SoulDove le storie prendono vita. Scoprilo ora