«Ora va', giovane Anima Gelida, e scrivi il tuo destino».
Il ricordo si dissolse, svanendo dietro quell'ultima frase. Erik arrestò la sua corsa, colpito dall'importanza di quella memoria che a lungo tempo era rimasta assopita dentro di lui: ecco perché l'appellativo di "Anima Gelida" gli suonava così famigliare! Ecco da dove proveniva il timore che quelle parole sembravano infondere in lui!
Ora si spiegava l'inquietudine da lui provata in seguito alla cerimonia, i discorsi interminabili e accorati che si scambiavano i suoi genitori e che lui origliava nascosto dietro la porta del salotto, il saluto disperato della madre prima della sua fuga. I suoi sapevano, sapevano tutto. Loro erano a conoscenza del significato delle parole dell'Oracolo e del mistero che celava il colore assunto dai suoi occhi granitici. L'unico che per tutto quel tempo non aveva capito nulla era lui, muto spettatore del suo destino, pedina di una maledizione.
«Oh, ci sei arrivato! Era ora...» sghignazzò la voce del suo inconscio.
«Sai, sei particolarmente irritante...» borbottò il ragazzo.
«Grazie per il complimento, caro.» Quell'affermazione fu seguita da una risatina di scherno, che si fece poi sempre più fioca, fino a spegnersi.
Sospirando, il giovane volle apprendere la distanza da lui percorsa. Quasi immaginava di trovarsi davanti le mura del villaggio, con le guardie affacciate e i popolani a infierire su di lui come belve. Sapeva che ciò non era possibile, sapeva di aver corso a lungo, per due miglia o più. Eppure si chiedeva se i campi imbruniti che aveva scorto mentre ricordava la sua Cerimonia dell'Oracolo non fossero solo un miraggio, un'allucinazione frutto di una fatica estrema e sfibrante. Era davvero fuggito, o non si era allontanato di un passo dalla sua casa?
Scorse invece un'indefinita landa di nulla, spoglia come un deserto freddo e racchiusa ai due lati dalle montagne, che sembravano avvicinarsi sempre più, fin quasi a convergere. Rocca di Ghiaccio era davvero dispersa tra la terra incolta e il ghiaccio, come gli era sempre stato detto: i villaggi più vicini, su cui la capitale allargava la propria giurisdizione, si trovavano a numerose miglia di distanza, e tutti nella direzione opposta rispetto a quella che aveva imboccato.
Seguì la terra con gli occhi, ammirando il suo lento sfumarsi in tonalità tra il marrone e il grigio, fino a giungere alla punta dei suoi piedi, coperti da due stivaletti neri che, prima immacolati e lucidi, erano ora imbrattati di fango melmoso. Lì il terriccio impallidiva e lasciava il posto alla dura roccia.
Così come i lupi drizzano le orecchie per percepire nell'aria lo scalpiccio soffocato delle prede, il giovane si concentrò sui suoni del mondo che lo circondava, cercando un minimo segnale ostile. Almeno da quel punto di vista poteva ritenersi esperto: il suo udito si era sviluppato notevolmente nel corso delle mille peripezie affrontate con i suoi amici. Non sentì nulla, se non il debole sussurro della brezza che arruffava la polvere. Nessuno sembrava averlo seguito. Era solo.
Sorrise, rincuorato e rinvigorito allo stesso tempo. «Ah, ah! Le mura ti hanno tradito, Riwal!» gridò con tutta la forza che aveva nei polmoni. Il vento gli restituì l'eco.
Stupito dal fenomeno, Erik alzò un piede, per poi riabbassarlo con forza, percuotendo la pietra compatta. Il suolo vibrò potente sotto di lui, propagando nell'aria immobile onde sonore che si schiantavano dietro le sue spalle, esplodendo in un'eco prorompente. Quel canto così potente, oscuro, rimbombante era quasi sinistro, inquietante, ma il ragazzo sapeva cosa voleva dire: la terra sotto di lui era cava, fragile sotto un sottile strato roccioso, e il suo vibrare rimbalzava a contatto con una parete. Ma, se ora scorgeva solo polvere e sabbia e le montagne parevano ancora troppo distanti per convergere, da dove si scaturiva l'eco?
Il giovane era confuso: quasi temeva di voltarsi e scoprire le ragioni di quel fenomeno. Eppure, qualcosa si accese nella sua mente, il ricordo sfumato di una lunga e noiosa spiegazione di Golmer. Al sopraggiungere di quella memoria, il ragazzo si affrettò a girarsi.
«Non può essere...» esalò in un sibilo, spalancando la bocca meravigliato.
Sotto i suoi occhi si estendeva, profondo e terribile, un precipizio che spezzava la radura come una ferita mai rimarginata. I versanti, ripidi e scoscesi, calavano a picco verso il basso, accompagnando una caduta della quale non si vedeva la fine. Un ponticello in legno, malandato e consumato dai morsi del tempo, lo attraversava da parte a parte, in un fragile tentativo di valicare quel torrente di tenebre. Non era racchiuso da sponde, né da bordi rialzati: era una semplice passerella sospesa sul nulla.
Il precettore gli aveva rivelato che si trovava lì da tempo immemore e che, chissà come, si era tenuto saldamente aggrappato a quei fianchi ripidi e pietrosi senza precipitare nel vuoto. Doveva essere stato costruito da quei coloni che, secoli e secoli prima, avevano posto le fondamenta di quella che era poi divenuta Rocca di Ghiaccio.
«Il... il confine!» mormorò Erik. Quasi non riusciva a crederci. Era davvero quello il confine? Quella frattura nella roccia, frutto probabilmente del violento tremare della terra, era davvero Voruniar? Stava davvero per abbandonare le Montagne di Ghiaccio, per tuffarsi in quel destino che a lungo aveva cercato di ignorare?
Si guardò intorno, e la sua intuizione fu confermata: da un lato della voragine si intravedeva la figura sfocata di Morajia, la montagna più massiccia della catena, facilmente riconoscibile per le due vette affiancate a formare una striscia arcuata a guisa di ali di pipistrello, mentre dall'altro si scorgeva Pejinbur, rilievo alto e sottile, appuntito come la lama di un coltello.
Senza che il suo stupore si fosse un minimo placato, Erik riportò lo sguardo sul ponticello, che, a ogni secondo che passava, sembrava sempre più antico e pericolante. Gli era stato spiegato che attraversarlo era impossibile per i gruppi di mercanti che talvolta lasciavano le Montagne di Ghiaccio per vendere i propri prodotti negli adiacenti territori dell'Alleanza, i Picchi del Canto e le Cime Sospese. Essi, tuttavia, sfruttavano la lunga galleria che era stata scavata in Morajia, per la cui realizzazione erano stati impiegati migliaia di instancabili operai.
Il tunnel, che sbucava in una valle al centro della vasta regione dei Colli Rocciosi, risultava sottile e sinuoso, come se fosse stato scavato dalla furia impetuosa di una sorgente sotterranea. L'uscita si mimetizzava perfettamente con la roccia della montagna, risultando invisibile agli occhi dei nemici. Proprio questi espedienti strategici, oltre al clima duro e al gelo perenne, avevano reso il territorio delle Montagne di Ghiaccio inespugnabile, una potenza chiusa e silenziosa ma, se provocata, micidiale.
«È troppo pericoloso cercare di raggiungere la galleria: ci saranno sicuramente delle sentinelle appostate all'ingresso. Dubito che siano a conoscenza del tumulto da me provocato, ma non si sa mai» ragionò il ragazzo.
Fissò intensamente il ponte. Studiò gli sparuti ciuffi di muschio che rivestivano la sua superficie ruvida, formando chiazze di un verde scuro e spento che si alternavano al marrone annerito del legno corroso. I rampicanti di erica si attorcigliavano in intricate giravolte tra le travi, nascondendo tra le ampie foglie teneri boccioli. Le punte dei chiodi di ferro che tenevano insieme le assi sporgevano acuminate, come le spine sullo stelo di una rosa. Il solo osservarlo incuteva paura, come se dall'oscurità che gli scorreva al di sotto provenissero ancora le grida lancinanti degli incauti che avevano tentato quell'attraversamento mortale.
Quando capì ciò che andava fatto, si sentì per un momento immobilizzare da un sano panico: sembrava provenire da quella parte della sua anima che ci teneva alla sopravvivenza, che non voleva ancora rinunciare ai piaceri della vita per concedersi all'oscurità, a quel grande mistero irrisolto che è la morte. Lui, però, ripudiò quei sentimenti con un sospiro sdegnato: non era più tempo di avere paura. Era giunta l'ora del coraggio e della forza.
Stava per dare uno schiaffo al destino, ma non se ne pentiva. Sarebbe stata la sua prova di iniziazione alla vita.
«Non ho altra scelta. Dovrò attraversarlo.»
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L'erede di Frost Soul
Fantasy"La tua discendenza sarà condannata. I tuoi occhi saranno la tua rovina, e con essi collasserai. Coloro che hanno il ghiaccio nell'anima saranno odiati, temuti, sterminati. Non uno sarà accolto, non uno incontrerà la pace, non uno si salverà dalla n...