~ Capitolo quarantacinque ~

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Erik non poteva crederci: aveva fatto tanta strada, si era spinto al limite delle sue forze per fuggire dalla sua terra ed eccolo lì, tornato laddove tutto era cominciato, in quella dannata foresta! Sperò di star nuotando nel tessuto di un sogno, che fosse la sua immaginazione, ma non era così.

Era di nuovo nelle Montagne di Ghiaccio, nella tana del nemico.

Questa volta, però, aveva con sé il suo corpo.

Joyra affiorò alle sue spalle, respirando a pieni polmoni. «Tu mi devi molte, moltissime spiegazioni!» esclamò, scuotendo la testa e disseminando attorno a sé una cascata di goccioline. La soffice massa di boccoli dorati si era sgonfiata e i fiori che vi erano incastonati si erano persi tra i flutti; ora i capelli erano appiccicati alle guance, rosse per l'irritazione.

«Non è proprio qualcosa che possa essere spiegato, Joyra...» borbottò Erik. Si caricò Vjana sulle spalle e fece sì che le sue braccia gli si stringessero attorno al collo. In seguito, arrancando tra le acque putride e melmose di quel lago più simile a uno stagno, nuotò verso la riva. Sentiva il fiato nebuloso della fanciulla contro la nuca, il che lo spronò ad accelerare.

Joyra lo superò dopo poche bracciate. Giunta presso la sponda, una spiaggia composita costituita da ciottoli misti a rocce non levigate, si alzò in piedi e si aggiustò i rozzi indumenti di foglie, che si erano in parte sfilati. Fatto ciò, poggiò i palmi sui fianchi, guardandolo con severità. «Ora parlerai, o giuro che non ti lascio uscire!» lo minacciò, parandosi di fronte a lui.

«Te l'ho detto! Non capiresti!» ribatté Erik, cercando di farsi spazio.

«Tu prova a farmi capire!» insistette Joyra, prevenendo ogni suo tentativo.

«E va bene, se proprio vuoi ... – si arrese il principe, mugugnando – Beh, diciamo che mi è apparsa una lince bianca, rivelatasi essere lo spirito di una mia antenata. Io le ho chiesto chi fosse, lei mi ha mostrato il suo passato e...»

«Sì, avevi ragione. Senza spiegazioni era meglio» tagliò corto lei, lasciandolo interdetto. «Che posto sarebbe, per l'esattezza, questo?» domandò, arricciando l'estremità sinistra del labbro superiore, disgustata. «È più squallido delle rovine del palazzo imperiale!»

«Non posso darti torto» replicò Erik, nel frattempo giunto a riva e rimessosi in piedi, con Vjana tra le braccia. «Si dà il caso che questa sia la famigerata Brumandra, forse il bosco più lugubre di tutti i Colli Rocciosi. Un luogo perfetto per ambientarci un racconto dell'orrore. E quella città in lontananza, la vedi? – indicò con un gesto del mento le basse casupole che si scorgevano di sfuggita – Quella è Rocca di Ghiaccio».

«Oh, ma allora qualcuno ci vive! Credevo che nessuno potesse abitare in un luogo così freddo, sudicio e rivoltante!» esclamò Joyra, emettendo un verso di disprezzo.

«Ehm, è la mia patria. Ne sono il principe, sai? Direi quindi che davanti a te hai la prova decisiva che qualcuno ci vive» disse il ragazzo, indeciso se essere piccato o divertito.

Joyra arrossì, borbottando: «Oh, e che ne potevo sapere io? Come posso aspettarmi che nella "Terra di Nessuno" ci sia in realtà qualcuno? Perché altrimenti l'avrebbero soprannominata così?».

«Fa niente... Non potrei certo dire che la mia terra sia un posto ospitale! Mentirei spudoratamente!» provò a consolarla Erik.

Vjana si mosse in uno spasmo e un uggiolio le rimbombò in gola. La pelle si andava raffreddando, le labbra scolorendosi, il respiro rarefacendosi. «Oh, no! Vjana!» mugolò il ragazzo. Preoccupato, investì la compagna con una raffica di domande: «Cosa possiamo fare? Dove andiamo?»

«Che ne dici di provare in quella capanna?» propose Joyra, accennando a un dettaglio alle sue spalle.

Erik vide il posto a cui l'amica faceva riferimento: una spelonca mezza diroccata, ricoperta da uno spesso strato di muschio e licheni. Le pareti erano all'apparenza poco stabili, formate da rocce sovrapposte con insufficiente cura, tanto che a separarle c'erano numerose fessure. Una finestrella priva di vetri dava sull'interno, ma non si riusciva a scorgere nulla per via del buio eccessivo, non rischiarato da alcun tipo di luce, naturale o artificiale che fosse. Il tetto era costituito da pietre più sottili sovrapposte a mo' di tegole, che consentivano all'acqua di defluire, così che non ristagnasse provocando un nauseante fetore di muffa. Si odorava invece un lieve olezzo di menta, coltivata in un orticello che affiancava la casupola insieme ad alcuni ciuffi di lavanda dall'aroma balsamico. Quelle sfumature di verde e di viola erano le uniche note di colore nel paesaggio inanimato. Il fanciullo si rattristò quando notò le foglie di menta: sua mamma ne adorava il profumo rinfrescante e se ne cospargeva anche durante le attività quotidiane.

L'erede di Frost SoulDove le storie prendono vita. Scoprilo ora