Capitolo 23

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Aaron

Le mie gambe si erano mosse da sole quando avevo lasciato da sola Isabelle in quella stanza, ma i miei pensieri rimasero incastrati in quella discussione per giorni. 

Non ero mai stato il tipo di persone che ragiona prima di agire, ero impulsivo e questo, molte volte, mi aveva fatto finire nei guai. 

Ammisi a me stesso che non avevo nemmeno considerato tutte le varie possibilità per cui Connor era stato nel suo dormitorio, troppo accecato da quella gelosia quasi corrosiva. 

Il solo pensiero che qualcuno avrebbe potuto godere della compagnia della mia Isabella mi aveva fatto andare completamente fuori di testa. 

E mentre mi ritrovavo a fissare quel soffitto bianco della mia stanza alla confraternita, non riuscivo a togliere dai miei occhi la vista delle sue iridi colme di risentimento. 

Avevo voluto ferirla, sì. Ma avevo ferito anche me stesso. 

Mi sembrava strano trovarmi in quelle mura quando avevo passato così tanto tempo nel suo nido, trovarmi in un letto da solo era quasi surreale. 

Nonostante quello che era sbocciato tra me e Isabelle fosse nato un po' per caso, un po' per la voglia del suo corpo, mi ritrovavo a desiderare di vederla entrare da quella porta per urlarmi contro che ero un emerito coglione. 

Non conoscevo la dinamica dell'incontro con Connor, forse non erano nemmeno affari che mi riguardavano, ma avevo la tremenda sensazione di aver sbagliato su tutto. 

E, come al mio solito, prima di pensare avevo agito e basta. Strappando via con la forza quella piccola bolla di felicità che avevamo creato io e lei. 

Ma avevo anche quell'orgoglio del cazzo che mi incatenava su quel materasso, impedendomi di prendere il giacchetto e andare da lei per chiedere spiegazioni. 

Perfino il ricordo del suo profumo o del suo sorriso non mi spronò ad alzarmi in piedi. 

Il problema si pose quando dovetti prepararmi per andare agli allenamenti, il primo giro di campo in cui non avrei avuto il mio migliore amico a correre al mio fianco. 

Nathan aveva deciso di rinunciare agli studi, di non continuare con la sua carriera da quarterback e focalizzarsi sulla gestione del Dragoncelli. Aveva il sogno di farlo diventare un impero e, per farlo, la sua attenzione doveva essere focalizzata solamente su quel fronte. 

Un po' mi dispiaceva, ma avevo sempre creduto nelle sue ambizioni e sapevo che dalla sua rinuncia sarebbero conseguite molte vittorie. 

L'erba appena tagliata del campo da football non mi diede la stessa consolazione o serenità come solitamente era in grado di fare. Mi sembrava di correre senza volerlo davvero, i miei muscoli andavano avanti per inerzia. Ero tremendamente svogliato e pieno di risentimento verso me stesso per potermi allenare in modo decente. 

E, sicuramente, erano stati i miei lanci troppo fiacchi e la mia mancanza di concentrazione se il coach mi mandò, metaforicamente, fuori a calci nel culo dal campo. Nemmeno il sguardo scalfì quella nuvola grigia che avevo sopra la testa, non avvertii nessun tipo di senso di colpa nei confronti della mia squadra mentre facevo la doccia per andare via. 

Quel giorno decisi di camminare, il vento non era più gelido come poche settimane prima e la sua carezza mite forse mi avrebbe schiarito le idee. 

Avevo le mani nelle tasche del giubbotto della squadra e qualche studente, mentre mi passava vicino, accennava sorrisi e pacche sulla spalla. Tutto sommato, non ero male sul campo e mi impegnavo al massimo che la mia resa fosse impeccabile. 

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