CAPITOLO 2

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Affrettandomi lungo il corridoio alla ricerca della camera 202 mi sentivo di nuovo a posto. Cerniera lampo chiusa, camicia abbottonata, la treccia lunga e ben pettinata. Senza contare i calzettoni bianchi appena comprati allo spaccio della scuola, naturalmente fatti mettere in conto da mia madre, che insegnava lì. Ero pronta ad affrontare i bambini; mi piace lavorare con loro, così pieni di energia.
"Tu devi essere Cristal McFarlane".
Un ragazzo alto e lentigginoso con i capelli chiari e le mani grandi come manopole da forno mi aspettava sulla porta dell'ufficio.
"Harry Klein? " chiesi.
"Proprio così. Entra, ti presento il resto della banda. Ehi, ragazzi, questa è Cristal, la responsabile per le attività sportive".
La ragazza dagli occhi grandi come fanali che per poco non avevo atterrato mi sorrise.
"Ciao, mi chiamo Anna" si presentò.
"Pamela" mi salutò una ragazzina più giovane, con il trucco pesante e qualche colpo di sole nei capelli.
"Hau" borbottó un ragazzo dagli occhi neri e sottili.
"Noi ci siamo già conosciuti" disse il ragazzo vicino a lui.
Tentai di fare la disinvolta. "Ciao, Jack". Ti pareva che con la sfiga che avevo non capitasse nel mio gruppo.
"Grande, ragazzi" disse Harry, come se a presentarci avessimo compiuto chissà quale impresa. "Adesso diamoci da fare".
Cominciammo la riunione. Il Campo Raggio di Sole era una colonia estiva diurna per bambini dai 6 ai 9 anni, gratuita. Harry aveva già lavorato nel quartiere da cui provenivano i bambini, così ci parlò di loro e dell'ambiente famigliare dove erano cresciuti. Discutemmo i nostri obbiettivi per le quattro settimane del campo e il sistema più efficace per realizzarli. I bambini sarebbero stati divisi secondo l'età in tre gruppi, la giornata in quattro periodi, due prima del pranzo e due dopo. Anna si sarebbe occupata della lettura, Jack della musica e dell'arte. Scoprì che si era appena trasferito a Baltimora, e che eravamo coetanei. Pamela aveva quindici anni, era la sorella di Harry e prestava servizio come volontaria. Io, naturalmente, mi sarei occupata delle attività sportive, mentre Hau avrebbe aiutato a perfezionare l'inglese ai dieci bambini di origine vietnamita.
Pochi minuti dopo la riunione un autobus giallo, un mostro fatto di gambe e braccia che si abitavano fra grida e ululati vari, si affacciò da dietro la curva.
Ci volle del tempo perché i bambini si decidessero ad entrare in palestra. Una volta riunito il gruppo, consegnammo loro delle targhette con il nome, mentre Harry spiegava le regole che vigevano al campo. Poi li portammo alla mensa, per la colazione. Io avevo una certa esperienza come baby sitter, con i bambini ci sapevo fare. Presi a piccole dosi, però: cinquantotto erano davvero un numero impressionante.
Dopo mangiato, convocai il gruppetto dei più piccoli, e li portai a giocare a Ruba-bandiera. Quando fu il mio turno con quelli di terza, vidi Harry arrivare con una grande scatola fra le mani. Era l'attrezzatura per tirare con l'arco: aiuto, doveva essere impazzito. Naturalmente le punte delle frecce erano coperte di tappini di gomma, ma chiunque abbia avuto a che fare con dei ragazzini di otto anni sa quanto siano pericolosamente creativi.
"Un paio di tiri e poi mettiamo via tutto" mi sussurrò all'orecchio Harry.
Nessuno riuscì a far centro, quel giorno, ma uno dei ragazzi, un tipetto sveglio dall'occhio di lince, prese in pieno uno scoiattolo. Che fuggì via terrorizzato. Io, invece, arrivai a colpire per ben due volte il bersaglio, fra l'ammirazione generale.
La mia straordinaria (si fa per dire) abilità nel tiro con l'arco dovette aver colpito molto i bambini. Quando tornai in sala riunione alla fine del pomeriggio, trovai Anna e Jack seduti sul pavimento davanti ai disegni realizzati dai ragazzi di terza. Mi guardarono e sogghignarono all'unisono.
"E io che avevo paura che disegnassero le solite cose: aerei, fiori..." disse Jack. "Guardate qui! Un'amazzone dai capelli rossi armata di faretra. Grandioso!"
"Un buon lavoro" mi disse Harry, sfoderando un sorriso da réclame di dentifricio.
"Già, già" risposi, ridendo. Avrei voluto uccidere Jack.
Scelsi la strada più lunga per tornare a casa, quel pomeriggio. Ai margini del campus c'era un boschetto di querce bagnato da un ruscello. Mi fermai sul ponte di legno che collegava le due sponde, a riflettere. O meglio, a pensare a Luke. Così quando lo vidi disteso sulle assi del ponte, per un attimo pensai che fosse morto! O che si trattasse di un incubo.

Una calda estateDove le storie prendono vita. Scoprilo ora