Trentanove

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trentanove


Viene fuori che l'isolamento è peggio dell'elettroshock.


Mi sento come Raperonzolo. Ma senza capelli lunghi.


Ci sono una porta e una finestra. Ma la porta è chiusa a chiave e la finestra è in alto e al posto

delle tende ci sono delle sbarre.


E dalla finestra s'intravedono solo scheletri di ciliegi. Ecco cosa si nascondeva dietro quegli


alberi. Il terzo piano.


Spero tanto che Jesse stia bene.


Questa stanza è molto più grande della precedente. Niente tappeto, solo una libreria vuota e un

letto. Un citofono minuscolo. Pavimento di terracotta e pareti spoglie.

Mi siedo a terra senza maglietta, sperando che il pavimento mi trasmetta un po' di fresco. E ogni

volta che penso a Jesse inizio a tremare, sempre di più.


Devo uscire di qui.


Jesse aveva una crisi quando è andato via. E se mentre guidava gli si fosse gonfiata la gola e

avesse fatto un incidente? Sarebbe stata tutta. Colpa. Mia.


Questa stanza mi farebbe molto meno paura se fosse più piccola.

Batto dei colpi contro il pavimento col gesso. La mia mano gonfia si ribella.
«Tyler!» grido.


«Oddio, Tyler, mi hanno messo in isolamento! Fammi uscire di qui!»


Il citofono emette un ronzio e lo psichiatra dice:
«Buono, Jonah. È solo per qualche giorno».


Ho brividi così violenti che sento la spina dorsale sbattere contro la parete.


«Non possiamo rischiare che tu faccia del male ad altre persone» mi dice.


Se mai sopravviverò, la gente dovrà abituarsi al fatto che io le farò del male.


Scoppio a piangere e le lacrime sono più calde del mio viso.
«Non lo faccio apposta» urlo.


«Tyler!»


«Non può sentirti» dice il citofono.
«Tanto vale che ti calmi e cerchi di riposare.» Il microfono si

spegne.


I miei genitori farebbero causa all'istituto se solo sapessero cosa diavolo mi stanno facendo.

Chissà cosa direbbero quelli di sotto. Chissà se sanno.


Chissà cosa direbbe Jesse. Chissà cosa direbbe Charlotte.
Chissà se finalmente si renderebbe

conto che al mondo c'è davvero qualcuno più fuori di testa di me.


Non riesco a credere che mi abbiano tolto il cellulare.


Charlotte. Oddio, ho così tanto bisogno di lei che mi scoppia la testa. Dev'esserci pure il modo

di avere un'altra possibilità con lei, dev'esserci pure un modo per uscire di qui...


Una voce:
«Jonah?».


Spalanco gli occhi, ma è solo il citofono.


«Sono l'infermiera Bluser, Jonah. Mi hanno assegnato il tuo caso.»


«Ciao» dico io.


«Sei pronto ad ammettere ciò che hai fatto, Jonah?»


«Che cosa?»


«Ciò che hai fatto a Leah e Mackenzie?»


«Io non ho fatto niente.»


Batto i denti, così mi metto la maglietta e striscio fino al letto. Il materasso è duro
come il marmo e puzza di urina. Lei continua a parlare, io premo forte le mani contro le orecchie. Mi rigiro nel letto come se fossi


davvero convinto di poter dormire. Canto, male, una canzone dei Weezer.

Non ho idea di quanto tempo passi da quando inizio a cantare a squarciagola e il rumore di una

chiave che gira nella serratura della mia prigione.

Mi metto seduto e le lenzuola sudate mi scivolano giù dalle spalle.


È Mackenzie. Non indossa l'uniforme, ma jeans e maglietta. Una fascia le sostiene il polso.

Dev'essere andata in una di quelle cliniche in cui non sono nemmeno capaci di diagnosticarti una


frattura e ingessarti nello stesso giorno.

Mentre richiude la porta, mi fa segno di star zitto con gli indici premuti contro le labbra. Tira

fuori un cacciavite dalla tasca e mette fuori uso il citofono senza far rumore. Lo solleva dalla parete e

lo lascia lì appeso a un groviglio di fili, che poi trancia in un colpo con un paio di tronchesi.


«Non abbiamo molto tempo» dice.


«Ciao» dico io, e poi non riesco più a smettere.
«Ciao. Ciao. Ciao. Ciao.»


Lei si avvicina al mio letto e mi mette una mano sulla fronte e una dietro la nuca.


«Tuo fratello sta bene?»


«Devo scoprirlo, giusto?» Il cuore mi squarcia il petto con urla strazianti.


«Uh-huh. Oddio, come sei sudato.»


«Mackenzie, Mackenzie. Mi farai uscire, vero?»


Lei si china su di me.
«Ci sono delle scale in fondo al corridoio. Il codice per aprire la porta è

4425. Corri giù, tre piani, e raggiungi la porta sul retro. Non fermarti mai, corri, scappa da questo


posto di merda.»


«Ok» sussurro.


Mi dirigo verso la porta ma lei mi dice:
«Aspetta». Mi volto e mi abbraccia.


Mi taglia il braccialetto e dice:
«Grazie».


«Di cosa?»


Lei mi sorride e mi arriva una fitta allo stomaco.


«No» dico.
«È stato solo un incidente. Non è colpa mia.» Mi piego in avanti e tossisco, lei mi


posa una mano sulla schiena.
«Non è stata colpa mia» insisto.
«Devo uscire di qui.»


Lei mi apre la porta e mi metto a correre giù per il corridoio. Rantolo e sono sul punto di

rimettermi a tossire. Ormai non me ne frega più niente delle mie dita rotte. Ho paura che l'allarme

scatti da un momento all'altro... e che loro mi ritrascinino... mi leghino...
4425.


La porta non si apre.


Oddio, m'hanno fregato.


Lei è d'accordo con loro. Non si è rotta il polso per davvero. Era tutta una messinscena e io sono


spacciato spacciato spacciato, cazzo se sono spacciato.


4425442544254425.


La serratura scatta.


Come non detto.


Per poco non mi do la porta in faccia, tanta è la violenza con cui tiro.


Mackenzie è laggiù da qualche parte, sento la sua voce.
«Corri, Jonah!» e io non capisco perché

diavolo abbia voluto dire il mio nome. Perché dicono tutti il mio nome?


Mi fermo a metà scala per riprendere fiato. È buio e umido e orribile e io vorrei solo vedere una

luce là in fondo.


Ma è notte.
Io sono Jonah. Ho trascorso tre giorni all'inferno e ora sono fuori. Ansimante, vivo.


Oltrepasso la porta dell'istituto, mi attendono il buio e Halloween.

Break - Ossa RotteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora